domenica 1 aprile 2018

REALISMO CAPITALISTA


Mark Fisher inizia il suo libro, Realismo capitalista, con un capitolo dal titolo emblematico e riassuntivo della sua tesi di fondo: È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
Di capitalismo la nostra società è intrisa. E il fatto che il tachteriano modello T.I.N.A. (There Is No Alternative) sia considerato a tal punto radicato da abbattere ogni possibilità di immaginare mondi diversi, ha fatto sì che il Capitale sia diventato sinonimo esclusivo della realtà. Il realismo capitalista è intriso di luoghi comuni che ne traducono l’immodificabilità: certo, la nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. E inoculare il germe del male minore genera la pandemia della rassegnazione all’esistente come unica e sola realtà.
Fisher va oltre: analizza i mali gravi a cui si accompagna il realismo capitalista. Sono tutti riconoscibilissimi.
a)      Desacralizzazione della cultura, considerata inutile, perché non produce utili.
b)      Smantellamento delle tutele del diritto del lavoro.
c)       Inconsapevole cooperazione di ognuno di noi, voraci consumatori, alla impersonale iperastratta struttura del Capitale.
d)      Crescita esponenziale dei casi di depressione e ansia; Fisher ne è una vittima (è morto suicida il 14 gennaio 2017, a quarantotto anni). Il Capitalismo tende a scaricare sui singoli il problema della malattia (fenomeno della privatizzazione dello stress), riducendo i sintomi da stress a una questione di emotività incontrollata, di disagio personale, di problemi chimico-biologici individuali, alla percezione di sé come falliti e incapaci di inserirsi nella struggle for life, insomma, buoni a nulla. Invece, osserva Fisher, il dato è lampante: tante persone, anche giovani, malate e depresse sono un vantaggio enorme per il capitalismo: atomizza la società (controllare delle monadi isolate è più facile che render conto a masse organizzate e consapevoli) e crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti.
e)      Elaborazione ingegneristica di una macchina “triturauomini” capace di degradare in maniera irrimediabile la dignità umana: la burocrazia. Verticismo, inefficienza generalizzata, sclerosi istituzionale sono gli ingredienti di questo meccanismo che schiaccia i cittadini riducendoli a meri ingranaggi di un sistema asfissiante e labirintico.
f)       Ideazione e programmazione di un laboratorio in cui testare le riforme neoliberistiche: una scuola sempre più piegata a imperativi di mercato, i cosiddetti target da raggiungere. Questo modello di scuola è così rappresentato da Fisher: un luogo popolato da studenti persi in un’inerzia edonistica, annoiati e sempre troppo connessi per poter prestare attenzione alle lezioni, prede di qualcosa di più che una semplice demotivazione. I giovani sono affetti da una sempre crescente incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché, dipendenza da flusso digitale continuo, stordimento. Non migliore è il ritratto degli insegnanti: intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori che assicurino il più alto numero di promozioni, e quello di disciplinatori autoritari, nel momento stesso in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi, cosa che, naturalmente, toglie loro ogni credibilità. Peggio: mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell’istituzione familiare.
g)      Costruzione del nuovo dogma di controllo delle coscienze: be smart! La nuova pretesa delle aziende asservite al Capitale è che i lavoratori profondano un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo: ciò che si vuole è un contributo affettivo che moltiplichi i risultati. Sistemi di valutazione interni ed esterni monitorano l’efficienza delle prestazioni lavorative. Tuttavia non sempre tutto si può calcolare: una buona didattica, ad esempio, come si misura? Insomma, la metastasi burocratica dello spettro valutativo fagocita gli obiettivi culturali cui la scuola dovrebbe mirare.
h)      Strettamente connessa al punto precedente è l’aleggiante presenza di una struttura simbolica supercollettiva da tutti presupposta e da nessuno conosciuta: il Grande Altro che non si può incontrare direttamente, inarrivabile come la massima autorità dell'assurdo caso di Josef K. nel Processo di Kafka. Direttive, norme, leggi farraginose e volutamente ambigue sono il magma entro il quale le certezze si disperdono e trionfano l'insicurezza, il senso di colpa, la percezione dell'errore perenne e dell'incombente sanzione, al punto che i soggetti introiettano l’apparato di controllo comportandosi come se fossero perennemente sotto osservazione. E alla fine ad essere valutata non sarà la competenza professionale, la bravura, insomma, del lavoratore, ma solo la sua diligenza burocratica. In assenza di certezze, spesso l’obiettivo a cui puntano i dirigenti – confusi esattamente come i loro dipendenti – non è tanto lavorare di più, ma lavorare in maniera più smart. Chi davvero potrebbe mai essere in grado di definire il Grande Altro? Aziende, banche, centri finanziari, il centro imprenditoriale degli interessi politici, l’intera macchina governativa: chi è il Grande Altro? Intuiamo che dietro i grossi interessi che sembrano guidare le nostre vite ci sia qualcosa, qualcuno, ma definire tale potere occulto non è impresa possibile. È chiaro che il principio generativo di questo stato di cose, la massima causa, non è un soggetto, ma una struttura impersonale: il Capitale.
i)        Accettazione incondizionata di tutto ciò che è nuovo,  conseguente rottamazione del passato, riduzione della memoria a mero fattore formale. Si pensi alla proliferazione di rituali dedicati al ricordo celebrativo e commemorativo di eventi nell’ottica esclusiva della loro commercializzazione. Viene meno completamente il calibro della sostanzialità storica: si pensi alla Giornate della memoria oggi spogliata di effettiva consistenza documentaria e ridotta al fenomeno della pop shoah..
j)        Nascita dell’idea di uno Stato-balia che vive sulle ceneri dell’idea di democrazia: si tratta di uno Stato che si manifesta nelle sempre più pressanti funzioni militari e di polizia e nelle sue pseudosoluzioni assistenziali per cittadini di fatto messi nelle condizioni di non poter progettare autonomamente la propria vita. Dell’idea di Stato resta solo il potere di controllo, ma non l’essenza di una democratica partecipazione, spesso, quest’ultima, ridotta semplicemente alla disintermediazione tecnologica, mero simulacro di libertà.
Fisher conclude il suo saggio con una definizione precisa e amara del nostro tempo, la lunga e tenebrosa notte della storia. Tuttavia non chiude il cuore alla speranza, quella che a lui purtroppo è mancata: opportunità, barlume di una anche piccola possibile alternativa politica ed economica, urgenza di ritagliare un buco nella grigia cortina del presente sono espressioni che suggeriscono la spinta a una reazione.
Pochi, ma lapidari sono i suggerimenti: ridurre la burocrazia, restituire garanzie, diritti e dignità al lavoro, ricostruire nuove forme di lotta e di protesta, erodere dall’interno gli ingranaggi dell’automonitoraggio e dell’ossessione autovalutativa cioè liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono ad essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?
Si tratta di avere a cuore l’umanità. Seneca in latino diceva: dum inter homines sumus, colamus humanitatem. Bisogna avere il coraggio di restare umani. E CORaggio non significa forza, la sua radice etimologica è CUORE. Il compito è sforzarsi di trovarlo, in un momento in cui il coraggio è confuso con l’audacia, la competizione, la prepotenza, la sopraffazione, la logica del vincente a tutti i costi, l’egotica autoaffermazione anche al prezzo della cannibalizzazione del prossimo.



Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.