domenica 17 dicembre 2017

MOBILITAZIONE TOTALE

Computer, smartphone, tablet: Maurizio Ferraris, nel suo piacevole saggio "Mobilitazione totale", li chiama ARMI, acronimo per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità. Un messaggio whatsapp, una e-mail notturna sono un diktat che obbliga moralmente a una risposta: la doppia spunta azzurra su whatsapp rivela che il destinatario ha letto il messaggio e a questo punto rispondere è doveroso.
Si tratta di una vera e propria chiamata alle ARMI, ne consegue una mobilitazione quasi militare: milioni di utenti si trasformano in militi pronti a rispondere al comando. È un nuovo imperativo categorico quello che mi spinge a rispondere a qualunque ora del giorno o della notte a un messaggio whatsapp o a una mail di lavoro che turba la mia quiete domestica e, senza più distinzione tra pubblico e privato, io sono travolto dall’indistinto magma del flusso dei comandi digitali.
Se pensiamo alla dimensione del lavoro – perché le mail più inquietanti sono proprio quelle dei datori di lavoro che come abili stalker disturbano la vita quotidiana, obbligando a forme di attenzione del tutto extracontrattuali -  va detto che ogni tipo di risposta, più o meno articolata, ha luogo fuori dall’orario di servizio, non è contabilizzata come lavoro, non è retribuita. È la nuova frontiera dello sfruttamento: la dilatazione spazio-temporale senza limiti della propria prestazione.
Lo scenario si aggrava se, poi, si considera che le operazioni svolte a titolo gratuito, le interazioni sui social  network generano un plusvalore assoluto. I mobilitati (gli inconsapevoli utenti) mettono, infatti, costantemente a disposizione il loro lavoro (ore di connessione per rispondere a mail, post, messaggi) e mezzi di produzione (computer, contratti con gestori telefonici, energia elettrica, cavi di connessione) e l’apparato tecnologico trae vantaggi economici (pubblicità sui social media, l’accumulo archiviale di dati degli utenti, una base sconfinata di conoscenza).
E Ferraris sottolinea che non basta voler restare “sconnessi”, non è sufficiente la volontà: l’intenzionalità è condizionata irrimediabilmente da sollecitazioni esterne, da imposizioni sociali che annientano l’umanità. Siamo di fronte al tramonto definitivo del socratismo come primato della coscienza e del kantismo come autonomia morale: Ferraris nota che è in atto il primato del sociale, della sollecitazione esterna. Insomma, sulla nostra azione prevale la “chiamata” esterna piuttosto che la spinta interiore. Come in una mobilitazione militare, agiamo anche se non vogliamo, ci sentiamo responsabilizzati, obbligati a rispondere a un messaggio/mail, anche nel cuore della notte di un magico weekend.
Ne deriva un a vera e propria “sociodipendenza”, aggravata dal fatto che il web non solo mobilita richiedendo una risposta alla chiamata, ma, soprattutto, registra: ciò che è impresso sul web è un documento indelebile, una memoria incancellabile, certo, frammentata e confusa, acritica e non storicizzabile nel mare magnum dei dati che i nuovi media collezionano; ma c’è, resta.
Ebbene, la chiamata alle ARMI e le infinite registrazioni di dati che danno vita a un apparato potentissimo che sa tutto di noi e di cui noi, invece, ignoriamo ogni cosa, ci condizionano: a livello intenzionale, perché, in fondo, comunque, rispondiamo; a livello economico, perché mettiamo a disposizione il nostro lavoro, la nostra energia elettrica, il nostro computer, il nostro tablet; a livello antropologico, perché, siamo dipendenti, ormai, dal web, per studiare, lavorare, comprare; a livello psicologico, perché l’intenzionalità della nostra azione è fortemente eterodiretta.
La soluzione che propone Ferraris a questo stato di cose è, però, piuttosto riduttiva e semplicistica rispetto ai tratti profondamente critici della sua analisi. Il web è per lui, comunque, un progresso, basta solo umanizzarlo e usarlo come strumento di diffusione culturale. Il web è la traccia definitiva di una società alfabetizzata, che è sempre meglio di una società analfabeta: in fondo, con tono ironico e volto a minimizzare il problema, Ferraris nota che se rispondiamo a qualche mail nel cuore della notte interrompendo il nostro sonno, è perché non stiamo partecipando a un rogo di streghe!
Insomma, come dire: adattiamoci all’irreversibilità del progresso.
Verga la definiva la “fiumana del progresso”: un’ondata irrefrenabile che, sì, certamente giunge a riva, ma travolge: Verga lo sapeva. E noi?
La conseguenza più grave di questa realtà è la dilatazione estrema e senza confini dello spazio digitale in cui lo spirito soggettivo incontra solo se stesso. Nelle antiche guerre le ARMI uccidevano l’altro, che però, se era fortunato, poteva difendersi e sopravvivere; ora le reti digitali aprono uno scenario nuovo e irreversibile: “l’espulsione dell’altro”. E nel regno della solitudine che il progresso tecnologico ha abilmente costruito, Windows è una finestra senza sguardo. (Byung-Chul Han, L’espulsione dell’altro).

sabato 9 dicembre 2017

L'INNOMINABILE ATTUALE

ROBERTO CALASSO, L'INNOMINABILE ATTUALE

L'età contemporanea è lo scenario di una mutazione antropologica: il passaggio dall'homo sapiens all'homo saecularis, che ha sostituito la conoscenza con l'informazione e ha espulso dai suoi orizzonti esistenziali il senso del divino; ha sacralizzato la società stessa, diventata l'ultimo quadro di riferimento per ogni significato.
La società - nota Calasso - ha perso la capacità di guardare oltre se stessa e ha dato vita al culto di sé: il culto della società divinizzata.
L'autore si chiede, tuttavia, se davvero il soggetto secolare riesca ad appagarsi della cancellazione dell'invisibile e in che modo, dunque, possa placare quell'ansia di ricerca verso la realizzazione di un ordine del mondo, che è il fine ultimo di ogni istanza religiosa.
Secondo Calasso la soluzione è venuta dalla "religione dei dati", quelli non estorti da poteri politici totalitari, ma spontaneamente forniti dal basso ad opera di innumerevoli individui. E questa è, a ben guardare, una nuova maniera per esercitare il controllo sulle coscienze, più forte di ogni Chiesa, più capillare di qualsiasi forza politica, di qualunque forma di controllo sociale. Ogni dato è registrato, tutto è digitabile e, perciò, manipolabile.
Come ogni religione, anche il culto della società divinizzata ha i suoi fondamenti, i suoi precetti, le sue norme: per l'homo saecularis la normalità ha preso il posto della norma.
In effetti, ciò spiegherebbe, l'ansia di normalizzazione che oggi tende a diluire ogni forma di diversità, dai matrimoni gay, all'omologazione dei canoni di bellezza ottenuti tramite la chirurgia estrema, all'uniformità delle mode.
E se la religione è fatta di riti, così l'homo saecularis ha le sue procedure, che hanno sostituito i rituali, solo che vanno nella direzione opposta a questi ultimi. Il rituale apre la coscienza al mistero della fede, che, per esempio, nel Cristianesimo, culmina nella transustansazione. Invece la procedura abbatte ogni fede, tende al totale automatismo di atti meccanici di registrazione finalizzati a operazioni informatiche, bancarie, scolastiche che fanno capo sempre e comunque al Big Data.
Se si abbatte il senso religioso, però, che cosa resta dell'umano bisogno di spiritualità?
Calasso individua due fenomeni in atto: proliferano le sette e cresce la dedizione a un ente non trascendente, ma genericamente definito come "umanità", di cui l'homo saecularis auspica la perenne prosperità. Si tratta di un culto in grado di accogliere indistintamente tutte le religioni e sette di ogni genere, perché si è sbarazzato della fede nel senso tradizionale del termine, ciò come attenzione rivolta a un'entità trascendente. Oggi la sola fede ammessa dall'homo saecularis è quella nella scienza e nei suoi strumenti tecnologici: le altre religioni sono solo un fenomeno sociale come tanti altri e perciò tali da essere incorporate e inglobate nel più ampio culto della società divinizzata. E il rituale di questa religione secolarizzata è la ripetizione che ribadisce l'esistente: pubblicità che si insinua in modo martellante nel mondo psichico degli individui, autoesposizione spontanea e reiterata sui social media.
E se le antiche religioni si costruivano anche attorno a viaggi redentivi compiuti da devoti pellegrini, oggi il secolarismo ha i suoi turisti che si muovono nel mare magnum del cyberspazio, navigano in rete, percorrono una realtà aumentata.
E la nuova Bibbia, il testo sacro del secolarismo, è il digitale/digitabile. Tutto ciò che è digitabile, infatti, diventa digitale: si tratta di una dimensione iperenciclopedica, che contiene tutto, è un caos algoritmico che mescola informazioni veritiere a informazioni infondate. Il sapere perde prestigio a favore di un'infinita disponibilità informatica di dati. I Big Data amministrano coloro da cui hanno avuto origine, mescolano e rielaborano i dati che noi abbiamo spontaneamente fornito, un immenso materiale cui si applica il gioco combinatorio dell'algoritmo.
Cè, tuttavia, in questo processo, l'illusione della libertà: si chiama disintermediazione e consiste nell'impressione di agire in prima persona senza il fastidio di ricorrere a intermediari. Questo odio per la mediazione ci spinge ad agire da soli per prenotare una camera d'albergo e il biglietto per un viaggio o a vagheggiare una democrazia diretta, meglio se fondata sull'infatuazione informatica, che abbatte ogni passaggio, ogni mediazione, ogni attesa.
E la coscienza? Quale posto occupa la coscienza nel pensiero dei transumanisti, il cui approdo finale è la Singularity di Ray Kurzweil?
L'homo saecularis è transumanista perché affida alla tecnologia quell'ansia religiosa che però ha espulso dalla sua storia e perché tende verso il superamento dei confini della natura umana. La sua è la religione del Dataismo. Con un abile gioco di parole Calasso delinea la sostituzione del Dadaismo - dirompente movimento avanguardistico del Novecento che predicava la sconnessione universale e l'abrasione di ogni significato - con il Dataismo che vuole, invece, la connessione coatta di ogni individuo trasformato in soldatino agli ordini di un fantomatico Stato Maggiore non meglio identificato  se non come Big Data.
Il senso è questo: registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno cosa fare.
E questo processo investirà anche la dimensione dei valori, dunque, della coscienza.
Si arriverà al punto in cui l'intelligenza artificiale sarà human compatible: attraverso un allineamento di valori la macchina/robot diventerà altruistica. Il robot diventerà superintelligente e capace di orientarsi tra i valori umani grazie a un sistema infallibile: LEGGENDO  tutto ciò che la razza umana ha scritto e da cui sgorga il succo dei valori.
Questo è il punto di arrivo: Singularity, una teologia secolarizzata, che si risolve tutta dentro la società, procede attraverso i mezzi tecnologici, ha fede solo nell'umanità, attribuisce alle macchine anche il complesso dei valori umani, ma non sa che farsene di principi come grazia  e libero arbitrio.

Gli scrittori hanno doti profetiche.
Come Baudelaire nel suo sogno visionario aveva previsto il crollo di un'immensa torre che poi la storia ha tragicamente conosciuto in forma persino raddoppiata, in quel famigerato 11 settembre 2001, così Calasso profetizza apocalitticamente, in un futuro non troppo lontano, la fine della società umana, l'unica in grado di autodistruggersi, paradossalmente in nome della religione del progresso e della felicità.



giovedì 21 settembre 2017

PAPAVERI ROSSI

Giuseppe Messina, Papaveri rossi. Il soffio caldo del favonio, Kimerik, 2016



A  meno che non si tratti dell’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, l’autobiografia è un genere che presenta ardue difficoltà per chi voglia affrontarlo. Casanova riusciva ad attrarre il lettore con i particolari pruriginosi di una mitografia di sé costruita nei termini esemplari di un riuscito e coerente progetto di vita libertino, edonistico e consumato all’insegna del desiderio. Ma un buon padre di famiglia a quali espedienti narrativi deve ricorrere per incuriosire i suoi lettori?

La principale strategia che Messina usa è l’affabulazione.
L’autore prende le mosse da un paradigma letterario nobile, Pasolini, e, precisamente, decide di riferirsi ad un suo testo dal titolo emblematico, appunto, Affabulazione. Non è qui importante il contenuto, dell’opera pasoliniana certamente di ispirazione autobiografica (al centro del suo dramma Pasolini pone il controverso rapporto con la figura del padre), quanto, piuttosto il senso stesso dell’affabulazione in sé.
In excipit della tragedia di Pasolini, in un dialogo tra il personaggio del Padre e un’enigmatica presenza - che forse c’è o probabilmente è solo frutto dell’immaginazione del personaggio – il Padre rivolgendosi al suo interlocutore e riferendosi alla complicata storia con il figlio, dice: come tu hai ben capito, questa non è la storia di un solo padre.
Ebbene,  Papaveri rossi non è solo la storia di Giuseppe Messina.
Un’opera d’arte si riconosce dalla forza universalizzante che emana.
Uno dei rischi maggiori di un libro autobiografico consiste nel fatto che esso riguarda l’esperienza personale del narratore/autore e non è detto che questa riesca a suscitare l’interesse dei lettori, oggi, in particolare, sollecitati da una serie di storie e fatti cui il web dà immediata e ampia diffusione.
Occorre, dunque, riflettere sul significato dell’affabulazione: si tratta della capacità di rendere universale ciò che si narra; “affabulare” significa fare in modo che il lettore si senta chiamato in causa, e percepisca che quanto è scritto lo riguarda: mutato nomine de te fabula  narratur, diceva Orazio[1].
Ancora in Affabulazione, il personaggio pasoliniano del Padre si chiede: che cos’è un’epoca? Messina risponde chiaramente a questo interrogativo: un’epoca è un tempo destinato a finire, un’epoca è una stagione che passa. E per questo bisogna narrarla, immortalarla, perché l’uomo non dimentichi, scrive Giuseppe Messina. Questo è l’alto mandato della letteratura: uno scritto, un romanzo, un libro è un monumentum, un’opera, cioè, destinata a sfidare le stagioni, il tempo che passa.
Un monumento MANET, resta per sempre.
Un monumento MONET, ammonisce, ti mostra un cammino, ti dice che cosa stai perdendo e che cosa dovresti conservare, per rimanere te stesso, anche se il mondo intorno a te cambia freneticamente.
Un monumento perpetua il ricordo del passato, lo rende meno lontano. Per i Greci, le Muse, le dee dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria divinizzata, e nella radice del termine monumentum c’è il verbo memini “io ricordo”.
E l’atto del ricordare è un lento e accurato riesame della propria vita; non vuol dire abbandonarsi a semplici rievocazioni nostalgiche, a vaghe memorie, ma implica una selezione attenta di ciò che ha contato davvero ed è rimasto nel cuore, come suggerisce l’etimologia della parola “ricordo”,  (da  “cor, cordis”, cuore).
 A questo proposito, annota Messina: fra qualche anno toccherà ai nostri figli e ai nostri nipoti rammentare gli anni migliori con i propri ricordi: dei nostri resteranno quelli che avremo saputo trasmettergli. (p. 138)
In Papaveri rossi appare chiaro che la capacità di affabulare acquista anche un carattere sociale e civile. Narrare, si è detto, significa custodire la memoria individuale e collettiva: si tratta di un messaggio profondo e incisivo,  di un’impresa davvero coraggiosa, in un’epoca, come la nostra, fatta, invece, di facili rottamazioni del passato.
Sin dalla dedica iniziale Messina istituisce un rapporto privilegiato con il lettore e, immaginandolo, cerca le parole più precise per rendere concreto e plastico il racconto di una vita che si snoda attraverso vicende, incontri ed emozioni intense.
Scrivere è come parlare: presuppone che qualcun altro legga o ascolti. È innegabile: chi scrive non lo fa mai solo per se stesso, vuole, piuttosto lasciare un segno che resti al di là del breve spazio che gli è concesso nell’esistenza. Possidio, alla fine della sua biografia di S. Agostino riporta un interessante epigramma, che spiega bene l’aspirazione di ogni scrittore a proiettarsi oltre i limiti cronologici in cui si trova a vivere: Vuoi sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo: la tua voce è la mia.
Papaveri rossi  va, quindi, letto anche in questa prospettiva: si tratta di un libro che vuole immortalare un’epoca, lasciare un messaggio e consentire al suo autore di sfidare il tempo.
Messina precisa, però, che affabulare vuol dire anche saper affascinare, procedere, cioè, non per ricostruzioni memorialistiche o documentaristiche, ma escogitare modi per sedurre il lettore, nel senso etimologico di se-ducere, portarlo cioè, verso un altrove che lo catturi e lo allontani dalla una routine abitudinaria: non è questo il potere della letteratura?
Quindi, affabulare equivale a universalizzare la propria storia e a sedurre con la parola.



Una seconda strategia narrativa che rende Papaveri rossi un’autobiografia interessante - nel senso, ancora una volta etimologico del termine, che fa riferimento a un testo in cui il lettore abbia l’impressione di inter- esse, di starci in mezzo, al punto da sentirsi coinvolto nei fatti narrati e nelle emozioni evocate – è il realismo come forma di innamoramento.
Spesso, ingenuamente, - spiega Walter Siti nel suo saggio Il realismo è l’impossibile[2] - si crede che l’approccio realista in letteratura sia il “copia e incolla” di un frammento di realtà: quanto più un libro è verosimile, tanto più è ritenuto realista.
Invece il realismo vero non è affatto mimesi del reale, non si limita a documentare; lo scrittore realista non è certo un copista, deve essere capace di disvelare un mondo che non  è ovvio; deve essere in grado di sfidare il mondo; deve saper estrarre da una scena di vita, da un dettaglio, dalle cose, dai fatti che accadono, il volto di un’epoca, il senso della vita, sottraendo quei dettagli dal flusso indistinto della consuetudine e rendendoli esemplari.
Lo scrittore realista deve amare a tal punto i particolari che cattura dalla realtà da renderli il filtro prospettico di una visione del mondo. E quando si parla di particolari si fa riferimento ai particolari belli e ai dettagli brutti: ogni cosa – vicenda, evento, fatto, oggetto, incontro, paesaggio, luogo - va amata profondamente per quello che è, esattamente come di un uomo o di una donna si amano i tratti seducenti e le imperfezioni, perché ogni cosa concorre a rendere unica la persona che ci appassiona.
E per questo, con fedeltà al reale Messina descrive Foggia distrutta e ridotta in macerie dopo la guerra, documenta la piaga del caporalato, ricorda le battaglie di Giuseppe di Vittorio, il gigante del sindacalismo italiano, ma con lo stesso amore per il vero sa cogliere la luce autentica della vita nella processione dei terrazzani che tornano, sui loro traìni, dalla raccolta dei fichi d’india. Si tratta di una descrizione realistica e lirica al tempo stesso: sotto ogni carro dondolava un lume a petrolio dalla luce fioca … quella cinquantina di luci, come grosse lucciole, creava una suggestione unica nel dondolante cammino verso “I tre archi” della Porta, su una strada appena rischiarata dai pochi lampioni a gas. (p. 77). Non è casuale l’insistenza, da parte dell’autore, sul verbo “dondolare” che fa riferimento plasticamente all’instabilità degli antichi e rudimentali mezzi di locomozione, carri di legno a due ruote, ma – metaforicamente – suggerisce anche la precarietà di un rito quasi sacro, tuttavia destinato a perdersi, come tutte le cose belle, al tramontare di un’epoca.

 Messina, inoltre, fa leva  su un altro fondamentale procedimento, la personificazione.
Qualunque tema o argomento venga trattato, esso è incorporato, incarnato, personificato: prende corpo, cioè, in personaggi emblematici che fissano in modo indelebile nel lettore il senso della riflessione, senza che l’autore faccia ricorso a parole di commento. Ogni aggiunta esplicativa rischierebbe, infatti, di rovinare la densità e il vigore di creature che nascono dal contesto narrato e nel contempo lo travalicano per stagliarsi come espressione di valori. Si pensi, per esempio, alla famosa Madre di Cecilia di manzoniana memoria, sintesi perfetta di straziante dolore, dignità nella sopportazione, rassegnazione di fronte all’ineluttabilità degli eventi, incrollabile fede in Dio.

In Papaveri rossi, l’uomo anziano  e la signora vestita di nero(p. 96) sono due anonimi personaggi che, però, nel racconto assurgono a emblemi di una condizione esistenziale. Il piccolo Giuseppe si sta recando con sua madre verso il campo  di concentramento di Statte, presso Taranto, dove il padre è prigioniero degli Inglesi. Il modo di starsene silenzioso in un angolo del camion, a ridosso della cabina di guida, con lo sguardo perso nel vuoto traduce icasticamente la pena sofferta dal primo dei due personaggi prima citati: si tratta di un padre che si reca a Taranto per far visita al solo sopravvissuto dei suoi tre figli andati in guerra. Non c’è bisogno di profondere parole sullo strazio della guerra: la realtà parla da sé. Dolore, disperazione, annientamento si leggono sulla sua persona.
La donna, in quello stesso camion, è, invece, un misto di dignità, rassegnazione e forza d’animo: lei va a trovare a Statte l’unico nipote rimastole, il solo scampato dell’intera famiglia. Al silenzio dell’uomo anziano fa da contraltare il bisogno di parlare, di raccontare, da parte di questa signora che trova la forza di compensare l’amarezza delle perdite con la pienezza dei tanti momenti di vita vissuta con chi non c’è più e con la memoria dell’amore dato e ricevuto: i ricordi erano la luce del viso, il viso la luce stessa dei ricordi. La compresenza del dolore e della vivezza speciale che contraddistinguono la donna, è chiara sin dalla presentazione iniziale, nel contrasto cromatico tra il nero del lutto e il merletto bianco che decora il collo e i polsi.
Resta comunque, fermo un dato: l’ineffabilità del dolore e, in generale, dei sentimenti. Si chiede, infatti Messina: è mai riuscito un solo scrittore, anche il più bravo e osannato …  a rendere appieno quello che si è vissuto e provato ogni volta … è mai riuscito a renderne tutto il dolore e l’angoscia più intimi, pur disponendo della lingua più completa, più ricca?
A questo punto l’autore si affida ai suoi intensi versi (p. 109):

Il mio dolore è il mio dolore,
la mia angoscia è la mia angoscia,
la mia tristezza è la mia tristezza.

Così come la mia felicità e la mia gioia
sono la mia felicità e la mia gioia
e nel loro, nel mio profondo,
nessuno potrà mai penetrare:
neppure io che le ho vissute,
perché non sarà più quel tempo.

Un’altra coppia di personaggi emblematici sono il Gobbo e l’Angelo (p. 214 e ss.): nel loro incontro c’è davvero il senso profondo della salvezza possibile pur nell’inferno della vita.
Messina sembra aver fatto proprio il messaggio di I. Calvino, un altro autore che aleggia spesso, come inferenza letteraria nobile nell’intero libro: l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio[3].
Dare spazio a ciò che non  è inferno, riconoscere il senso umano della vita: è questo il messaggio che trapela dall’incontro casuale, ma intenso, tra due insoliti personaggi, diversi, ma complementari.
Giovanni, il Gobbo, è arrabbiato con la vita e con la levatrice che lo aveva estratto malamente del paradiso materno per precipitarlo nell’inferno di una vita sgraziata e disgraziata; Maria Teresa, l’Angelo, è una bambina triste per la sofferenza di dover vivere a Bari, città bellissima, ma lontana dal padre, che lavora come responsabile tecnico delle miniere della ditta Montecatini, ai piedi di San Giovanni Rotondo. Nel loro incontro avviene un “miracolo”, nello scambio di poche battute - pronunciate da Maria Teresa con la semplicità che solo i bambini possiedono - è contenuta la chiave che aveva cambiato una vita, prodigiosamente. Le parole incoraggianti di una bambina fanno uscire il Gobbo dall’inferno del suo isolamento, forse più pesante della malattia stessa, e la rinnovata apertura agli altri trasformano Giovanni, il “poveretto”, in una specie di “mito”, un “portafortuna” per quanti vogliano toccare la sua gobba, illudendosi di trovare la felicità e nel contempo donandola a Giovanni, parlando un po’ con lui e liberandolo dalla sua solitudine.
È, certo, discutibile il fatto che la gente cerchi il Gobbo non per il sincero desiderio di stare con lui, ma solo per il bisogno di trovare un rimedio – peraltro illusorio -  alle proprie sventure.
Tuttavia, Messina ci fa riflettere sul risvolto positivo della vicenda: nell’incontro si accorciano le distanze e ci si riscopre affratellati da un medesimo destino di dolore. Chi cerca il Gobbo è, in fondo, infelice come lui e solo nella reciprocità si può scorgere il volto umano dell’esistenza.

Intensamente emblematico è, poi, il personaggio di Mamma Olga.
Dichiaratamente ispirato al personaggio brechtiano di Madre Coraggio – come spiega nelle note l’autore stesso – Olga è una figura che domina sull’intera narrazione, soprattutto per la sua eredità intellettuale e morale.
Il profondo affetto che lega il figlio alla madre non ha bisogno di descrizioni, emerge invece, esplicitato a chiare lettere, l’insegnamento che per tutta la vita accompagnerà Giuseppe Messina: aveva inculcato, in tutti, il senso della libertà, libertà del cuore, delle idee, della vita stessa, alla quale nessuno deve rinunciare, fino a combattere per la sua difesa e per tutti coloro che ne vengono privati (p.27). E non si tratta di parole dettate solo dalla contingenza storica – sono questi gli anni del fascismo liberticida e della lotta resistenziale dei partigiani – ma sono convincimenti profondi e radicati nella coscienza di una donna che è simbolo di coraggio, forza interiore, conoscenza del dolore e capacità di reagire all’abbattimento.
Messina rappresenta Olga in tre precise azioni: narrare storie, impastare il pane, cantare.
Nei giorni del terremoto del 1948,  la mamma, in quel luglio di preoccupazione e paura, aveva preso a riunire nella grande tenda, al centro dell’accampamento per terremotati, bambini e ragazzini per raccontare storie. Un po’ prima di Pasolini, ma in linea con la tradizione già vecchia di millenni. La vocazione e il diploma di maestra la spingevano, con assoluta naturalezza, a trasmettere il suo sapere ai più piccoli. (p.26).
Dopo un periodo trascorso come rifugiati per scampare ai rischi della guerra - prima a Miramare di Rimini, poi nel convento delle suore Carmelitane a San Pancrazio di Russi e dopo ancora, presso la cascina della generosa signora Romanina - finalmente  nel 1945 Olga e i suoi figli ritornano a Foggia, in casa del nonno Edoardo: il rione in cui abitavamo, intorno a via Sapienza, era stato quasi interamente risparmiato dai micidiali bombardamenti che avevano provocato circa ventitremila morti, in una città che contava poco meno di quarantamila abitanti. (p.66)
In questo strazio fatto di macerie e povertà, per gente ormai disabituata ai piccoli piaceri della vita, il meraviglioso e indimenticato profumo del pane bianco che Olga prepara per i suoi familiari e inforna, si diffonde rapidamente.
Per una città che ormai da anni mangia pane nero e duro, impastato con crusca e terra, quello lavorato con la farina bianca che Olga aveva portato dalla Romagna, è una delizia sopraffina.  Tutto il quartiere si rianima, svegliandosi da un lungo stato di prostrazione: Via Sapienza si popolò fino all’inverosimile e le due pagnottelle non  poterono bastare certo a soddisfare tutti.  La fata buona – come ormai Olga è definita – continua a impastare per tante famiglie festanti e riconoscenti; la farina si esaurisce in pochissimi giorni e altra ne viene chiesta alla signora Romanina.  Il pane bianco riportò la fiducia nella vita e fu come se avesse suonato un campanello, quello della voglia di ricominciare e di recuperare tutte le cose buone che la guerra aveva cancellato.
Gli ostacoli non erano pochi e le difficoltà ancora più numerose, ma non apparivano più insormontabili: era sparita la rassegnazione. (p.78)
 Mamma Olga ama il canto, l’opera lirica – amore che le è stato trasmesso dal padre, amico di Umberto Giordano  - ma canticchia anche successi molto popolari come Solo me ne vo per la città e  - a voce sussurrata – canzoni passionali come Malafemmina.
Il suo, però, non è solo un canto libero, è un modo per fingere tranquillità con i figli, una strategia per dissimulare le preoccupazioni e le ansie che la assillavano: allevare da sola i figli, patire la lontananza del marito prigioniero e sforzarsi di non pensare al suo dolore per non moltiplicare l’angoscia di un presente difficile,  sono condizioni che mettono a dura prova una donna.
Raccontare, impastare, cantare:  queste tre sfumature riconducono a un tratto specifico di Mamma Olga e fanno di lei l’emblema di ogni madre.
Olga è la vita che si perpetua nella parola, è la forza che nutre, è il volto che sorride e incoraggia anche se tutto intorno sembra crollare.

Lo stesso valore emblematico si legge nella figura di Enrico, padre amorevole, forte e dignitoso anche nell’umiliazione della prigionia: un leone orgoglioso e ferito, che reclamava la sua libertà. (p. 108)

 Una delle più nobili strategie narrative riconoscibili in Papaveri rossi,  è, infine, la leggerezza. A dire il vero, si tratta di un valore che va ben oltre l’impeccabilità dell’arte di raccontare storie. L’autore la definisce il segreto stesso della vita.
Personalizzando in modo originale il titolo di un famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Messina parla dell’incredibile leggerezza dell’essere. Si tratta di una sapiente inversione di senso rispetto al nichilismo di Kundera: quest’ultimo, richiamandosi alla definitiva caduta di ogni orizzonte di senso - tipica della cultura postmoderna -  definisce “insostenibile” il peso del non senso dell’esistenza, schiacciata dall’assurdo che lascia l’uomo come un relitto nel mondo, spaesato, senza radici e senza mete. Messina, invece, pare più vicino alla posizione di Italo Calvino che polemizzò proprio contro il nichilismo di Kundera, parafrasando il titolo del suo romanzo  con le seguenti parole: “Ineluttabile pesantezza del vivere”.
Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare. Non sto parlando di fughe verso il sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica[4].
Messina adotta proprio questo punto di vista: la leggerezza come reazione al peso di vivere, il volo, come sfida agli ingabbianti ancoraggi e come elevazione verso un altrove fatto di desiderio, di ricerca: la poiana vola maestosa e alta (…) a intervalli regolari (…) vola solitaria nel dominio del cielo (…). “Mi raccomando! Tieni i piedi ben saldi per terra!”. Quanto avrei preferito sentirmi dire: “Vola libero!” e quanto avrei voluto farlo, accompagnato dal battito delle ali, dal loro fruscio nel vento. (p.210)
La leggerezza è, dunque, la forza del sogno che resiste nonostante le dure prove che la realtà ci riserva.
E il filtro della leggerezza si trasfonde nell’idea stessa di letteratura, la sola dimensione possibile dove il senso si svela e dove le storture dell’esistenza acquistano significato e si collocano nelle giuste prospettive, costruendo un quadro in cui tutto ha un suo preciso valore.

Leggerezza significa capacità di vedere oltre il dolore, di affiancare, cioè, alla consapevolezza  del male di vivere - per usare la nota espressione montaliana -  l’insopprimibile spinta propulsiva dello slancio vitale: la vita tiene sempre intrecciati i suoi due volti inscindibili, ἔρως e θάνατος, anzi è proprio la certezza della morte che fa amare la vita e quanto più si è vicini a percepire la fine, tanto più si avverte l’attaccamento alla vita.

Messina dà chiara dimostrazione di questo assunto nel titolo stesso del suo romanzo. Durante il viaggio verso Taranto per rivedere il padre prigioniero, il piccolo Giuseppe è attratto dalla sconfinata distesa di papaveri rossi nei campi (p.94).


Il papavero è un fiore rosso come il sangue dei soldati uccisi dalla guerra, ma, nello stesso tempo, vellutato, come il raso che la mamma ricamava, e morbido, come il suo abbraccio affettuoso.

Non è qui importante l’elaborato accostamento di sensazioni tattili e particolari cromatici che creano un groviglio di sensazioni abbinate a ricordi e sentimenti. Il dato più significativo sta nel carattere complementare tra il dramma della morte e il richiamo della vita, tra ἔρως e θάνατος, tra pesantezza e leggerezza.

La leggerezza diventa, dunque, l’attitudine a cogliere il lato bello dell’esistenza anche quando sembra prevalere il peso della vita. Il rischio di ogni giorno vissuto è, infatti, che – come un vento che gira  e rigira e sopra i suoi giri poi ritorna, come è scritto nell’Ecclesiaste – il destino travolga la spensieratezza della gioventù e la soffochi tra responsabilità, impegni, fallimenti e disillusioni. E, invece, bisogna “catturare” la leggerezza e fare di le un modus vivendi. Scrive Messina: basta ascoltarla, viverla.

È la leggerezza che consente a all’autore di cogliere durante il funerale del professor Santollino, l’allegra gaiezza di un corteo matrimoniale o di alleviare la pena del viaggio triste verso il campo di concentramento di Taranto con una sosta al mare, a Margherita di Savoia. Tutti i passeggeri del camion diretto verso la prigione sono improvvisamente catturati dalla distesa azzurra dell’acqua: la spiaggia si popolò di voglia di leggerezza e di spensieratezza, di desiderio di linfa vitale indispensabile per la sopravvivenza di ciascuno.

Ecco, la leggerezza è la forza che aiuta a sopravvivere.

L’uomo l’ha persa, per la sua stupida indifferenza. Chiuso nel suo microcosmo, ha disimparato a riconoscerla.

 

In Papaveri rossi un posto privilegiato è occupato dall’amore, che aggiunge una nota passionale alle pagine di Messina. Nel libro sono rappresentate tutte le sfumature di questo sentimento.

C’è l’infatuazione infantile di Giuseppe per Laura, sullo sfondo dell’imponente Castello Normanno di Ariano Irpino, dove la fantasia fa rivivere le storie degli amori più antichi e impossibili, quelli di Lancillotto e Ginevra, di Orlando e Angelica.

È un amore fatto di guance arrossate solo per uno sguardo o per un contatto lieve … con il cuore che scoppiava.

Diverso è l’amore per Franca, a San Menaio, fatto di appostamenti e goffi tentativi volti a eludere la sorveglianza dei genitori di lei.

E, poi, ci sono i racconti di Vituccio che sulla spiaggia vende frutta fresca per combattere il caldo estivo. Si tratta di storie d’amore intenso e sofferto, come quello tra Eleonora e Totorre, che vivono un sentimento forte, pronto a sfidare le prepotenti pretese del signorotto garganico Duduccio, intenzionato a esercitare sulla ragazza lo ius primae noctis. E nel ricordare questa terribile usanza Messina porta subito il lettore a riflettere sulle innumerevoli umiliazioni subite dalle donne nella storia.

Uno spazio particolare è, inoltre, riservato a Sofia, ragazza bella e seducente, dalle morbide forme. È lei la donna che porta via con sé verità e segreti mia pienamente svelati.

 

E, infine, un valore particolare assume in questo romanzo la tenerezza.

In una conferenza tenuta nel 1988, Raymond  Carver[5], grande narratore dell’Oregon, ricorda una frase di Santa Teresa, tratta dal cap. XXXV della sua autobiografia spirituale: le parole conducono ai fatti (…) preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.

Si tratta di una frase interessante perché presenta due parole inusuali per il nostro tempo, dominato dal materialismo e dalla veemenza: “anima” e “tenerezza”.

Nel capitolo dedicato a alla morte del padre, Messina non nomina mai la parola tenerezza in modo esplicito, ma ce ne fa sentire la presenza nei particolari e risveglia una voce nell’anima. In un’epoca che ha visto fallire modelli autoritari e padri/Narcisi[6], Messina ci fa scoprire il vero senso della paternità in un’espressione: la mano nella mano.

Un padre, infatti, non è un supereroe che ha sempre le soluzioni pronte, è un uomo che ti accompagna nel viaggio della vita, con tenerezza, fra gioie e dolori, cadute e risalite.

Messina lascia un tocco leggero su questo messaggio: ce lo fa percepire, ma non lo spiega. Pochi tratti sono sufficienti: si sa, la leggerezza è anche un modo di narrare.

Uno scrittore non ha bisogno di troppe pagine per dire quello che ha da dire. Trasforma le parole in azioni, con un linguaggio chiaro e preciso. Le parole infondono vita alle storie raccontate, se usate bene toccano l’anima.

 

Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura[7].

 

E Papaveri rossi lo realizza pienamente.


                                                                    
                                                                                     Teresa D'Errico







[1] - Orazio, Satire, I, 1, 69-70
[2] - W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013
[3] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi,1972
[4] - I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
[5] -  R. Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi, 2915.
[6] - Questo tema è ben sviluppato in Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, 2013.
[7]  - Ezra Pound, ABC of reading, 1934, ristampato da Garzanti, 2012.

sabato 15 luglio 2017

BRUCIARE TUTTO

WALTER SITI, BRUCIARE TUTTO: QUALCHE RIFLESSIONE


Al di là delle polemiche di cui è stato oggetto, Bruciare tutto pone quesiti ineludibili nella vita di ognuno: che cos’è il Bene? che cos’è il Male?

Coppie che si sgretolano, disperse tra violenza e tradimenti; sacerdoti che vivono more uxorio, incuranti del fatto che chi sceglie il sacerdozio accetta anche il voto di castità; una diffusa povertà che la sola generosità caritatevole di una Chiesa sociale non può risolvere; un passato che riaffiora tormentando l’anima e inchiodandola a un incancellabile peccato: questa è la realtà con cui deve fare i conti don Leo. Sospeso tra le storture del mondo, le contraddizioni della Milano “da bere” e quelle della sua anima, il giovane parroco sente fino in fondo il dramma della prossimità fra il Bene e il Male. Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che Siti – per sottolinearne la grandezza - definisce «faro di fermezza nell’incubo della Germania nazista», scriveva: «chiunque agisce responsabilmente diventa colpevole». Questa frase condensa il senso dell’intero romanzo di Siti e del conflitto interiore di don Leo. Aggiunge, ancora, Siti: «chi assume la responsabilità si prende sulle spalle le conseguenze della propria azione sugli altri». Insomma, fare il Bene non ti immunizza dal rischio di causare il Male e, spesso, scegliere il male minore non esclude il pericolo di tragiche conseguenze: «Dio ci scampi dal Satana che si presenta sotto forma di buonsenso, o di “male minore”, o di “carità ragionevole” … se la carità è amore, gli innamorati sanno che l’amore non è mai ragionevole … la carità ragionevole è una contraddizione in termini, non è più carità!».
L’uomo si trova in un vicolo cieco.
Il presente è un’avventura difficile, soprattutto per un giovane sacerdote:
«“Non ci indurre in tentazione”: molti il Padre Nostro lo recitano ancora così perché così l’hanno imparato da piccoli – “non abbandonarci alla tentazione” è invece costretto a dire Leo secondo la nuova traduzione della Cei, che invoca una fantomatica aderenza all’originale greco; ma “eisférein” vuol dire “portare verso”, quindi proprio “inducere” come letteralmente ha tradotto Gerolamo. Io lo so, Signore, ah se lo so che sei abbastanza malizioso per metterci alla prova».
Il passato è un tormento, i ricordi di azioni inconfessabili sono una persecuzione:
«Leo picchia sui muri, si ferisce la nocche – la memoria è una bestia sleale: finge di essere parte di noi, addirittura una nostra facoltà, e invece è un verme solitario che decide da solo quando riaffacciarsi alla bocca dello stomaco. Memoria involontaria, la chiamano, ma è al servizio di una volontà nemica; ti colpisce quando sei meno preparato a difenderti, nei momenti di svago o di genuina passione».
E la fatica compiuta per rimuovere gli scomodi e inquietanti incubi che riemergono, si vanifica: «il lavoro di anni si sgretola in un lampo», Soprattutto quando il passato si materializza e si fa vivo: allora diventa più forte la sofferenza ed è inevitabile la costrizione a ricordare. L’inaspettato incontro con Massimo richiama alla mente le vicende del 2003, l’anno in cui «le difese morali di Leo si erano già molto abbassate», un anno che Leo incautamente ha ritenuto  ormai lontano.
Il desiderio, la tentazione, il peccato - che in passato  hanno attratto lui, giovane seminarista, verso il giovanissimo Massimo - diventano ora un’ossessione che convive con il rimorso, il senso di colpa, il richiamo di Dio: «se devo vivere contaminato da questa follia, se sono bacato tarato guasto, profondamente e letteralmente irrecuperabile, perché Dio mi cerca ancora?».

Non resta che la speranza in giorni migliori. Quando gli viene affidato Andrea, un ragazzino «più intelligente della media», ma triste, difficile, figlio di genitori immaturi e irresponsabili, Leo sente che può riscattarsi. E, invece, si danna.
Certo, Leo fa la cosa giusta, rifiuta le richieste di attenzione del piccolo Andrea, cerca di non alimentare la confusione della sua infanzia fatta di solitudine e incertezza. Tuttavia, per un perverso gioco della sorte, Leo sbaglia. Non pecca, lui, eppure non evita la tragedia ad Andrea: «non ho avuto il coraggio di donare la mia vita eterna per impedirti di morire. Ho considerato la salvezza della mia miserabile anima più importante del tuo ancora aperto futuro. Perdonami, dovevo accettare di fare l’amore con te, qualunque prezzo mi fosse costato; l’ossessione avvicina a Dio mentre la morale ce ne allontana».

Su Bruciare tutto aleggia lo spettro della pedofilia, l’ardimento della dedica a don Milani ne ha acuito lo scandalo. Ma non sta in questo il senso del romanzo di Walter Siti.
La vicenda del sacerdote Leo è, forse, un caso estremo, che espone il lettore a una vicenda dagli effetti radicali. Non è in questione  - ma se ne è discusso – se la letteratura possa o debba occuparsi di scandali e dare spazio all’indicibile. Le posizioni sono svariate e inconciliabili, ognuna con le sue ragioni.

Resta, invece, importantissimo il dubbio con cui ci lascia Siti, attraverso le parole di don Leo: «la missione del cristiano non è fare il bene, ma fare la volontà di Dio, e non è sempre detto che le due cose coincidano: era bene per Abramo sgozzare il proprio figliolo? Ma poi, ci siamo mai chiesti con che criteri valutiamo cos’è il bene? Ho paura che ormai, e anch’io mi metto nel mucchio, definiamo “bene” quel che ci fa vivere tranquilli, e “male” quel che ci disturba».

È questo il nucleo di Bruciare tutto: l’inestricabile groviglio tra Bene e Male in cui l’uomo si dibatte.
«Come può essere bella Milano, quando il sole la premia e fa brillare i grattacieli come stoviglie nuove (…). Ma in due punti dolenti, allo zenith, affiora un sospetto d’impurità che presto si materializza in biancore filamentoso (…). Due cirri nuovi nuovi emergono tra le torri dalle profondità del nulla (…). Sembrava tutto sereno e invece il celeste covava in sé questo magone: così il Male nasce dal Bene».

Il senso generale del romanzo sembra tendere verso un nichilismo terrificante: «il “nihil”, il nulla, il tunnel di assurdo su assurdo» pare prevalere su ogni richiesta di senso, su ogni ricerca di Dio, su ogni traccia di fede. Frasi come «Tu che hai vinto la morte, dammi un segno» marcano la disperazione di Leo e lo rivelano in tutta la sua fragilità, mentre si rivolge a un Dio che appare distratto, incurante.
Eppure colpisce la frase conclusiva che Siti sceglie per congedarsi dai lettori: l’orizzonte è salvezza, ancora per un po’.
Forse bisogna smettere di pensare e sforzarsi di mettere il mondo tra parentesi: «non sono forse le parentesi a fare andare avanti il mondo?»




martedì 18 aprile 2017

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO/ PERLE AI PORCI

Che cosa può mai unire Il sogno di un uomo ridicolo (1877) di Dostoevskij e Perle ai porci (1965) di Vonnegut?
A un primo sguardo nulla. Si tratta di due opere nate in  momenti storici diversi, scritte da autori che davvero non hanno niente in comune. Accostare questi due scritti sembrerebbe una forzatura.
Diverso è lo stile: accorato e visionario il racconto di Dostoevskij, ironico e paradossale il breve romanzo di Vonnegut.
Diversi sono i protagonisti: il personaggio dostoevskijano si autodefinisce un uomo semplicemente ridicolo e il lettore non conosce nessun aspetto della sua vita; invece di Eliot Rosewater si sa che è l’erede di un enorme patrimonio e che tutti, a cominciare dal padre, lo ritengono incapace di intendere e di volere. Egli, pertanto, viene giudicato inabile ad amministrare l’incommensurabile ricchezza di cui è titolare.
Certamente diverse sono le ambientazioni delle due vicende: un novembre cupo e piovoso fa da sfondo alle strade probabilmente pietroburghesi, forse le stesse del sognatore delle Notti bianche, e gli spazi intergalattici lontani dalla Terra e vicini alla stella Sirio, costituiscono lo scenario in cui l’uomo ridicolo ha la visione di un Eden che è l’esatta inversione delle dinamiche esistenziali terrene.
Perle ai porci, invece, si svolge in una piccola città dell’Indiana, da cui ha avuto origine la fortuna dei Rosewater. 
La città dei Rosewater, che da loro prende il nome, è il centro dell’azione di Eliot, stravagante presidente della Fondazione Rosewater, un uomo completamente in antitesi con l’individualismo americano, incarnato dal padre, il senatore Rosewater, fedele cultore del “Sistema della Libera Impresa”, quello in cui i veri nuotatori restano a galla, mentre quelli che vanno a fondo si sistemano da sé. Amen!
Eppure, nonostante questa evidente lontananza, i due scritti hanno molto in comune.
Cominciamo dai protagonisti: sono pazzi.
Nell’incipit del racconto dostoevskijano l’uomo ridicolo si presenta: Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo.

Su Eliot Rosewater non ci sono affatto dubbi: la scena finale si svolge in una clinica psichiatrica.
Perché, a distanza di circa un secolo, Dostoeevskij e Vonnegut danno voce a personaggi pazzi? La risposta è semplice: come già Erasmo da Rotterdam chiariva a suo tempo, la follia è solo il modo di vedere le cose da una diversa prospettiva. I personaggi delle due opere in esame sono “diversi”: il loro modo di vedere il mondo e la realtà “diverge” dal senso comune.

L’uomo ridicolo, per quanto creda di essere completamente anestetizzato ai sentimenti, sebbene sia convinto che ormai nulla al mondo abbia importanza, al punto che niente sembra poterlo trattenere dal proposito del suicidio, improvvisamente è richiamato alla vita dal pianto disperato di una bambina. Lui prima la allontana da sé, poi, tornato a casa, ripensando a quella bambina prova un inusuale senso di pietà che lo distoglie dal suo progetto autodistruttivo.
L’uomo ridicolo capisce, allora, che qualcosa nella sua coscienza si muove e forse resta un sottile filo che lo lega al mondo e probabilmente proprio in quel mondo c’è ancora un posto per lui. Improvvisamente fa un sogno: si immagina morto, trasportato da un ignoto compagno di viaggio lontano dalla Terra. Insieme giungono in un regno felice,  incontaminato, fondato sull’amore fino all’arrivo dell’uomo ridicolo che contagia quell’Eden: a causa sua si diffondono la menzogna, la prepotenza, le discordie e le contese. Schiacciato dal senso di colpa egli vorrebbe uccidersi, ma nessuno lo capisce, tutti lo scambiano per un folle: in fondo quella gente ha ricevuto da lui solo ciò che desiderava, quella dose di egoismo che è diventato il presupposto, il motore dell’esistenza.
Al risveglio l’uomo ridicolo ha una certezza: ha conosciuto la Verità e vuole realizzarla, ha capito che tutto dipende da noi, dai nostri comportamenti. Sceglie di vivere, si rifiuta di credere che il male per gli uomini sia la normalità e decide, perciò, di far rinascere l’Eden che ha sperimentato, vuole restituire senso e vigore a una verità scomoda e sottovalutata: ama il prossimo tuo come te stesso. E diventa felice. Questo gli ha insegnato la bambina disperata: in noi c'è la compassione e, quindi, è possibile un’umanità diversa e la chiave di volta consiste nella capacità di amare e di distinguersi dai più in virtù della propria apertura all’amore.

Con una maggiore concretezza e prendendo le distanze dal sogno visionario dell’uomo ridicolo, Vonnegut racconta una storia simile.

Eliot si presenta definendosi molto vicino all’Amleto di Shakespeare, anzi si sente peggio di Amleto: è confuso più di lui. Amleto aveva almeno lo spettro del padre a suggerirgli cosa fare. Eliot sa di avere una missione importante da compiere, ma non ha un libretto di istruzioni da consultare! C’è una cosa che, però, lo disgusta con certezza: il fatto che il governo avrebbe dovuto dividere equamente le ricchezze del paese, invece di permettere che certa gente avesse più del necessario, mentre altri non avevano niente. È esattamente la stessa cosa che denunciava l’uomo ridicolo: nell’Eden contagiato dalla sua misera umanità,  ciò che fa degenerare l’armonia in caos è la lotta per la divisione, per il mio e il tuo, la divinizzazione del proprio infinito desiderio.
E come l’uomo ridicolo prende una decisione coraggiosa – decide di continuare a vivere per farsi testimone della legge dell’amore e dare in questa maniera il proprio contributo al mondo– così Eliot Rosewater attua un progetto eroico, dona tutti i sui averi ai bisognosi: voglio amare questi americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte. E non dona solo soldi, Eliot offre qualcosa di ancora più prezioso dei soldi: il suo tempo, la sua capacità di ascolto, la sua umanità. E quando il cinico avvocato  Norman Mushari cerca di farlo interdire per trasferire il controllo della Fondazione Rosewater ad un altro ramo della famiglia, con la speranza di trarre profitti dall’affare, prontamente Eliot reagisce con una trovata geniale e infinitamente generosa, scegliendo, invece, per sé, la via dell’essenzialità: Aveva una camicia sola. Aveva un vestito solo. Aveva un solo paio di scarpe.
Eliot è malato di utopia? Ama il prossimo tuo è una vecchia verità che non ha messo radici, come nota l’uomo ridicolo?
Forse. Certo è, però, che i protagonisti de due scritti appaiono pazzi, ma sono felici: in una società travolta dagli odi e dagli egoismi, loro scoprono la gioia, la gioia del donare se stessi, il proprio amore, i propri averi e questo li avvicina, nonostante gli anni di distanza.

Sì, niente uguaglia la gioia di donare

a coloro che sono più poveri,
e gaiamente, con liete mani
spargere ovunque i bei doni.

Sì, nessuna rosa è più bella
del volto dei beneficati,
quando ricolme, o gioia immensa,
si abbassano le loro mani.

Sì, nulla rende così sereno
dell’aiuto per tutti gli altri!
Se non rinuncio a quello che possiedo
nessuna gioia potrà darmi.
(Bertolt Brecht, Sulla gioia del dare, “Poesia e canzoni dalle opere teatrali”, in “Poesie”, Einaudi, 2014