mercoledì 31 agosto 2016

La strada

CORMAC Mc CARTHY
Cormac McCarthyLa strada

Il mondo devastato non lascia spazio alla speranza. In uno scenario di apocalittica distruzione un padre e un figlio camminano. Solitudine e precarietà sono le cifre di esistenze che brancolano in uno smarrimento senza fine: la terra avvolta nel suo lugubre velo continuava ad arrancare intorno al sole, ignota e smarrita come qualsiasi altro pianeta sconosciuto nella remota oscurità circostante.
Sopravvivere in un mondo assurdo, uscendo incolumi dalla violenza che lo uccide, è l’obiettivo dei due protagonisti. Non si sa quale guerra abbia ridotto in frantumi ogni vincolo sociale, trasformando  gli uomini in predoni; l’autore non spiega quale catena di cause abbia determinato una simile oscurità, una tale assenza di orizzonti. Mc Carthy attribuisce, però, al bambino una forte lucidità di analisi: guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come se fosse l’unica ostia della cristianità.
“Terra desolata”, termine di eliottiana memoria, viene usato dallo scrittore per sottolineare il colore livido di una dimensione spettrale, in cui si aggirano uomini senza fede, nomadi in una realtà febbricitante, fatta di tenebre e nulla e in cui l’attesa si dissolve in un angosciante mai, con la certezza che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.
Eppure un simile scenario non lascia il posto a uno scontato nichilismo. Nel padre si fa strada un sentimento sempre più forte, non un semplice istinto protettivo, neanche solo un forte vincolo d’amore. Protezione e amore non sempre bastano a rendere uomini i figli.  Guardò il bambino addormentato. Ce la farai? Quando sarà il momento? Ce la farai? … Lui teneva il bambino stretto a sé … ma ammesso che fosse un buon padre sapeva che … il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte.
Tra il buio del presente e l’ignoto dopo la morte c’è uno spazio che si chiama vita e il bambino la rappresenta. Non è sufficiente proteggerlo dal presente e l’amore, certo, non gli farà da scudo eterno contro la durezza dell’esistenza. In nome del figlio, allora, il padre aggiunge un nuovo cardine alla sua strada verso il futuro: la responsabilità, un lavoro tenace e costante orientato a rendere il figlio capace di camminare da solo, in modo autonomo, ma forte dell’esperienza di chi gli è stato sempre al fianco, è inciampato e si è rialzato insieme a lui.
La strada, quindi, al di là delle apparenze non è un romanzo nichilista e non è neppure un libro che celebra la chiusura nella torre d’avorio degli affetti, in risposta alla totale assenza di senso della storia.
Il legame tra padre e figlio è la metafora di un nuovo orizzonte di significato che nonostante tutto è possibile dare all’esistenza umana.
Abbracciò il bambino ... Poi si rimisero in marcia e tenendosi per mano raggiunsero ... il punto più alto della strada... Freddo e silenzio. ...  Un freddo assassino. L'uomo teneva stretto a sé il bambino tremante e contava ogni suo fragile respiro nell'oscurità... Terra desolata... Continuava ad andare avanti...
Dobbiamo continuare a cercare ... Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere.
Io non te lo permetterò...
... Si sedette piegato in due con le braccia incrociate sul petto e tossì tutto quel che poteva tossire...
Si accamparono lì e quando l'uomo si stese a terra capì che non si sarebbe più rialzato e che quello era il posto dove sarebbe morto....
Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare... Fa' tutto come facevamo insieme.
Voglio restare con te.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
E dove sta? Io non lo so dove sta.
Sì che lo sai. E' dentro di te. Da sempre. Io lo vedo. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni.
Massimo Recalcati nel suo saggio Il complesso di Telemaco, considera La strada un testo dal forte valore pedagogico. La storia dimostra che è tramontata l’era di Edipo, quella che tradizionalmente faceva dei padri l’autorità indiscussa e vedeva nella sudditanza dei figli la motivazione principale alla contestazione, venuta, in effetti, con le rivoluzioni del ’68. Si è conclusa, poi, anche l’epoca dei Narcisi, i genitori postsessantottini, in carriera, travolti dal successo, amici dei loro figli, assenti, ma nello stesso tempo concentrati a proiettare su questi ultimi la loro personale ansia di eccellere, destinati, così, a sopraffare le loro creature, opprimendole, generando in loro frustrazioni, senso di inadeguatezza e, pertanto, ottenendo, il più delle volte, risultati contrari a quelli sperati. Ebbene, falliti questi due contrapposti modelli educativi, Recalcati individua proprio nel padre delineato da Mc Carthy la nuova proposta. Un genitore non è colui che schiaccia con la sua perfezione, non è neppure l’amico che confonde i ruoli e, quindi, non dà sicurezza. Un genitore non ha certezze né risposte sicure. Lascia che il figlio le trovi da sé, nel fondo del suo cuore. Lo incoraggia, lo aiuta a conoscersi. Commette errori, inciampa. Alle domande del figlio, il padre di Mc Carthy risponde quasi sempre non lo so, eppure lo porta in salvo, lo tiene stretto a sé e lo lascia andare, quando arriva il momento in cui il figlio dovrà procedere da solo, perché lo ha deciso la natura, perché a un certo punto si smette di essere figli e si diventa uomini. Il padre descritto da Mc Carthy non nasconde la paura, ma mostra lo sforzo di superarla. Insegna al figlio che non bisogna arrendersi, anche quando il corpo cede e l’animo è stanco. Nonostante il dolore, la malattia, la disperazione, sprona il figlio a cercare la fiamma viva della sua essenza, quella fiamma che illumina la strada.
Compito di un genitore è consentire ad ogni figlio di scoprire quale sarà la sua fiamma, dove porterà la sua strada.








martedì 9 agosto 2016

Un guizzo di brace e altri racconti

ALFONSO D'ERRICO

Un guizzo di brace e altri racconti

Critica. Direi quasi scettica. Anzi piuttosto indispettita: un altro esperimento narrativo di mio padre, la scanzonata occupazione di chi crede che “raccontare” sia, in fondo, un passatempo, una “cosa” alla portata di tutti … del resto gli italiani credono di essere un popolo di scrittori, ognuno ha un romanzo nel cassetto…
Pronta con la mia matita rossa e blu, decisa più che mai a dimostrare che narrare è ben altra cosa rispetto al saper scrivere, mi accingo a leggere i racconti di Alfonso d’Errico, magistrato in pensione, nonché mio padre, con lo stesso atteggiamento con cui in genere trascorro i miei weekend invernali, tra pacchi di compiti di Italiano di alunni bravi, ma che credono di essere artisti; colti, ma che ritengono di poter aspirare al Nobel e che, quando assegni il compito “ scrivi un racconto su…”, già si vedono inseriti tra le pagine di manuali scolastici e antologie! Perciò, sentendomi un po’ correttrice di bozze e un po’ maestrina, sono andata alla ricerca degli errori. E invece …
La prima frase su cui si imbatte il mio spirito ipercritico ha un significato dolce, malinconico, vero: ...diceva mia madre parlando in genovese. Il suo pessimo dialetto voleva testimoniarci la scia intensa di un pezzo della sua vita. Nelle trenette al pesto che ogni tanto ci preparava, voleva condensare giorni, gioie, ricordi.( Uno dei mille)
Io la ricordo proprio così, mia nonna. Non è questo, però, che mi colpisce; piuttosto, attrae la mia attenzione il modo in cui la frase termina: … condensare giorni, gioie, ricordi. Renderli densi, fitti, vivi, sottrarli all’indistinto della memoria, all’anonimato delle vaghe impressioni, per rivivere, tra grumi di emozioni, un passato che -  oggettivamente - non c’è più, ma che – soggettivamente - non se ne andrà mai dal cuore. Capisco allora che è questo il desiderio di mio padre, condensare giorni, gioie, ricordi. Trovo sulla sua scrivania, aperto - credo - non a caso, un libro di poesie di Ezra Pound. La matita trattiene le pagine per conservare il segno, il punto in cui la lettura si è interrotta. Trovo una leggerissima linea tracciata da lui per sottolineare poche parole: il tempo ha visto e non tornerà indietro;/ e che diritto abbiamo, noi che conosciamo l’ultimo intento,/ di affliggere il domani con un testamento!
Inoltrandomi nella lettura ho capito il nesso tra i racconti di questa raccolta e i versi di Pound. Per mio padre narrare è stato un po’ come vivere: non testamenti e volontà da far eseguire, non saggi consigli che - l’esperienza lo dimostra - raramente vengono ascoltati; non insegnamenti che, in virtù della sua autorità genitoriale avrebbe potuto - legittimamente - impartire, ma racconti di vita vera, con pazienza e intelligenza intessuti di parole calibrate e ironiche, di vicende apparentemente biografiche, ma dal sapore universale, in cui un insegnamento sicuramente lo trovi, ma nel frattempo ti sei goduto il racconto!
E mentre leggi ti sorprendi, senti che lui ti strizza l’occhio, sa quando ti deve far sorridere e quando ti deve far riflettere. Questo dialogo silenzioso con il lettore somiglia a quello che costruivamo io, lui e mia sorella, di sera, prima di addormentarci: non ci raccontava fiabe, ma “storie” che avevano il tratto dell’umanità, dell’esperienza, delle gioie, degli errori, dei dolori e delle vittorie. Non so quanto fossero vere, ma ci hanno aiutato a vivere. Non testamenti, ma testimonianze. Non monumenti, ma “storie”, che dei monumenti hanno la capacità di imprimersi nella memoria e di rimanerci e che della storia conservano il significato etimologico. Sono frutto, infatti, dell’indagine acuta e della ricerca attenta sui comportamenti e sui sentimenti umani, su quel fondo comune che riduce le distanze tra le persone.
Continuo la mia lettura e mi soffermo su un piacevolissimo racconto dal vago retrogusto oraziano e dal tono tra l’ironico e il bonario; mi incuriosisce un’altra frase: … se fino a quel momento non avevo visto l’ora di liberarmi di quel tizio, ora quasi mi dispiaceva distaccarmene. Avvertivo un inspiegabile senso di vuoto che mi stava attendendo al varco non appena mi fossi separato da quell’ignoto amico di gioventù sbucato all’improvviso da un passato che avevo buttato alle mie spalle.( Al parcheggio)
Di Orazio rivedo l’atteggiamento infastidito di chi si sente importunato e ha altro di più urgente da fare. Nella satira detta “del seccatore” (Sermones, I,9), Orazio descrive il fastidio, la noia, che lui stesso prova durante l’incontro inaspettato e seccante con un tale che lo trattiene in chiacchiere vuote. Il poeta latino suscita il sorriso complice del lettore perché sa che tutti potremmo riconoscerci ora nel suo sentimento di tedio ora nello sfinimento provocato dalla tattica messa in atto dal seccatore. Siamo uomini e sbagliamo sia nell’ascolto distratto sia nell’invadenza. Ma Orazio è indulgente e con la sua ironia bonaria sa assolvere chi, vivendo, incorre in inevitabili errori. Ebbene, Al parcheggio conserva della satira oraziana lo smarrimento di un incontro in un momento poco opportuno, il desiderio di liberarsi quanto prima dell’ignoto e sedicente amico. Risulta, però, senza dubbio originale quell’inspiegabile senso di vuoto che persino la fine di un incontro fortuito potrebbe generare; è del tutto personale il graduale affezionarsi alle ombre che riemergono non chiamate, inaspettate, da un passato che si crede ormai buttato alle spalle e che, invece, non solo vive, ma addirittura se ce lo dimentichiamo, prepotentemente si rifà vivo. Esattamente questo accade al protagonista di Ricerca di parole incrociate: un biglietto riemerso casualmente dalle pagine ingiallite di un vecchio libro di scuola apre il varco a un incontro, restituisce spazio a un passato che non è poi così lontano, così inesorabilmente perso. Vive nei ricordi, nei sentimenti, nelle regioni del “cuore” che non è a compartimenti stagni. Del resto sarebbe una condanna chiudere le porte ai ricordi e vivere solo di attimi, in un presente convulso di esperienze che se non si sedimentano non ci formano. Non è facile vivere dentro i muri di un presente che rinnega il passato e ha difficoltà ad aprirsi al futuro (Ricerca di parole incrociate)
… Già, nella poesia di Ezra Pound c’è un verso che precede quelli sottolineati da mio padre: … basta che una volta siamo stati insieme. E ce lo ricorderemo per sempre. Questo mi pare il messaggio di un libro che non vuole dare insegnamenti, ma che lascia il segno.
Nella vita “basta una volta”. I ricordi ne conserveranno la traccia.