La stagione bella è un romanzo intenso e propositivo: pur senza sottrarre nulla alla profondità del dolore che attraversa l’esistenza umana, F. Carofiglio suggerisce che esiste comunque un altrove possibile, una stagione bella, una frontiera dell’oltre che, certo, sta a noi saper raggiungere.
La protagonista, una
giovane donna, Viola, nel suo laboratorio crea fragranze che sono per lei
qualcosa di più che semplici profumi: lei le definisce una strategia
terapeutica, aprono le stanze segrete dell’inconscio, raccontano le
emozioni senza passare attraverso le regole dell’intelletto. Infatti Viola,
laureata in psicologia, consente ai suoi clienti di recuperare le loro memorie
olfattive: attraverso le fragranze li riconnette con il loro mondo interiore,
con il loro passato, liberando dal rimosso emozioni nascoste.
Viola ha perso
recentemente la madre, Barbara. Perciò è prostrata dal lutto, ma trova momenti
di sospensione alla sua amarezza nuotando: l’acqua è la sua libertà.
Mentre riordina la casa
materna, un giorno, per caso, trova una scatola che contiene lettere e
fotografie della madre, persino registrazioni della voce di Barbara, ancora ragazza, studentessa alla Sorbona di Parigi. La sua voce allegra, il suo volto sorridente, portano Viola a
una presa di coscienza: lei della madre non sa niente, così felice non l’ha mai
vista. C’è un pezzo di vita di Barbara che a Viola è ignoto e che però la
riguarda. Viola comprende che senza memoria c’è il buio, anche
sulla sua vita, anche sul suo presente.
A questo punto inizia la quête di
Viola, un percorso di ricostruzione del passato della madre e soprattutto di
ricerca di quel padre che a Viola è sempre mancato, che lei non ha mai
conosciuto e di cui la madre non ha mai voluto parlare. Da questo viaggio a Parigi
alla ricerca di risposte, da questo percorso di autocoscienza, per Viola nasceranno
nuove prospettive su di sé e sul
senso del dolore.
La scelta di intersecare
il lavoro di olfattivista con quello di psicologa trova nel romanzo un input
letterario. La protagonista dichiara di essersi ispirata, infatti, a un
racconto di Calvino, Il nome, il naso (che fa parte della breve
raccolta Sotto il sole giaguaro): come il personaggio di Calvino, anche
Viola cerca di dare un nome a una commozione dell’olfatto. E si tratta
di un impegno nobilissimo. Oggi siamo terribilmente dipendenti dalla dimensione
visiva e in cerca di visibilità, che è stata ormai messa da parte la capacità orientativa dell'olfatto. Calvino scriveva che abbiamo dimenticato
l’alfabeto dell’olfatto e così i profumi resteranno senza parola,
inarticolati, illeggibili e con loro anche le emozioni ad essi collegate.
Rischiamo di diventare analfabeti emotivi. Calvino nel suo racconto nota che in
passato, quando noi esseri umani non eravamo ancora completamente evoluti e vivevamo
a contatto con la terra, tutto quello che dovevamo capire lo capivamo col
naso prima che con gli occhi … il cibo il non cibo il nostro nemico la caverna
il pericolo tutto lo si sente prima col naso, tutto è nel naso, il mondo è nel
naso … l’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve sapere. La
storia umana invece ha ridotto il nostro “rapporto olfattivo” con la realtà,
nell’era dell’homo videns, il naso ormai conta poco. E invece per Viola
il profumo funziona come una madeleine proustiana, attiva memorie e
emozioni.
Al di là dello studio che Viola conduce sulla dimensione interiore delle persone che frequentano il suo laboratorio, il tema dominante del libro di F. Carofiglio è il rapporto tra Barbara e Viola, madre e figlia: un legame strettissimo, fatto, sì, di profondo amore, ma anche di ombre. Con Barbara Viola ammette ossimoricamente di aver avuto un legame insano e perfetto. Il loro è un rapporto caratterizzato da parole dette e svanite, da molti silenzi. La giovane donna sul letto di morte di Barbara riflette sul suo legame con la madre: penso alla sua vita, alla mia, così annodate. ANNODATE è un aggettivo ambiguo: indica due vite unite, sì, ma pure non lineari, fatte cioè di nodi non sciolti che pesano.
Se del padre Viola ha subito l’assenza, della madre invece dice, con un peso sul cuore, non riesco a ricordare quasi nulla che non contempli la sua presenza. Barbara è stata una madre forte, lei ha imposto alla figlia il nuoto (certo poi Viola lo ha amato, è diventata la sua passione, ma si è trattato in origine di una scelta della madre) anche nei momenti più delicati: Viola ricorda con terrore il giorno in cui ha detto a Barbara di non sentirsi bene, ma la madre senza dare peso alle parole della figlia, l’ha spinta a nuotare ugualmente, non l’ha ascoltata, e nella memoria della ragazza ora c’è solo una piscina allagata di sangue. Quello ricordato da Viola è il giorno del suo primo ciclo mestruale. E ora, dopo anni, questo trauma non si cancella: ti odio, mamma, ti odierò per sempre.
Barbara ha tenuto stretta a sé Viola, non ha fatto entrare nessuno nella loro vita: non abbiamo bisogno di nessuno, tu e io, ha sempre ripetuto. Un microcosmo, una prigione? Il lettore scoprirà che Barbara ha solo cercato, per tutta la vita, di proteggere sua figlia, per infinito amore, da un infinito dolore. Ma Viola ancora non lo sa. Lo capirà dopo e rivolgendosi idealmente alla madre morta, ammetterà: mi hai protetta ferocemente.
M. Recalcati nel saggio Le
mani della madre, scrive che l’eredità materna riguarda il sentimento della vita. Dalla relazione con la madre
deriva il nostro rapporto con la vita. E quella che Barbara ha trasmesso a Viola
è un’eredità emotiva complessa, che ha lasciato segni, cicatrici, insieme a un
profondo amore.
L’anatomia del dolore di
Viola condotta dall’autore rende La stagione bella un romanzo profondamente
ovidiano. A Ovidio, infatti, ci sono riferimenti espliciti: viene citato chiaramente l’Ovidio
delle Metamorfosi. Ma il libro di F. Carofiglio è
ovidiano per un particolare meno esplicito, eppure, forse, più importante, per una
frase che condensa il senso di questo romanzo. Quando Viola si reca a Bari per incontrare
l’amico Matteo, poliziotto, da cui spera di avere aiuto nella ricerca del padre, Viola dice a se stessa, stanca di soffrire: questo
momento passerà e questa sofferenza mi sarà utile.
Questa sofferenza mi sarà
utile è la traduzione di un verso degli Amores di
Ovidio: dolor hic tibi proderit olim, “un giorno questo
dolore ti sarà utile”.
Viola sta capendo che con
il dolore bisogna imparare a convivere per rinascere: è questa la lezione che F.
Carofiglio ricava anche dal KINTSUGI, l’arte giapponese che ripara i vasi rotti
lasciando in evidenza le crepe, decorate con oro, affinché si vedano. Il vaso
riparato è però un vaso nuovo.
Nella vita è così, tutto si
trasforma: è il principio ovidiano delle Metamorfosi, omnia mutantur,
tutto cambia, anche il dolore. Le ferite a un certo punto smettono di
sanguinare e diventano cicatrici.
Dopo aver svuotato la
casa della madre e riverniciato le pareti di bianco, Viola dice non so
ancora cosa ne farò, ma adesso è una casa vuota, e piena di luce. La stagione
bella è quella del cambiamento, della speranza, che non cancella il dolore,
ma lascia spazio alla luce, se si impara a perdersi nei propri desideri, se si
riesce a riconoscerli e ad ascoltarli. E questa è una delle
eredità emotive che Barbara ha lasciato a Viola: se ci perdiamo scopriamo i
segreti delle città. Nella nostra vita dobbiamo imparare ad attraversare le
strade dei nostri desideri, al di là degli schemi razionali.
Inoltrarsi nella lettura
de La stagione bella significa incontrare numerosi e stimolanti riferimenti
letterari. In particolare colpiscono le molteplici citazioni di Virginia Woolf,
tratte da Mrs Dalloway, da Orlando. Il romanzo si
apre in esergo con una frase del più sperimentale dei libri di V. Woolf, Le onde: e se finisse qui la storia?/
Con una specie di sospiro?
Le onde è
il romanzo di V. Woolf che meglio ritrae la mutevolezza della vita, la sua
mancanza di linearità, la molteplicità delle prospettive che la connotano, il
flusso ininterrotto con cui l’esistenza si manifesta e scorre, la sua
atomizzazione in frammenti dispersi che non si lasciano ricomporre in un quadro
definito e completo. E Viola se ne rende conto, gradualmente: niente
somiglia a quello che è stato. La vita scorre, le cose cambiano, omnia
mutantur.
Sospeso tra Ovidio e V.
Woolf, la stagione bella sembra suggerire che la chiave interpretativa
delle nostre vite sta proprio nel deporre la pretesa di definire tutto, di definirci. Forse è questo che va accettato: essere un po’
flaneur dentro la propria vita e avere la forza di vivere come Ginevra, un
personaggio secondario de La stagione bella, ma a cui F. Carofiglio
riserva uno spazio fondamentale. Ginevra è una donna anziana, libera da
formalismi e ipocrisie, ha avuto amanti e un passato abbastanza spregiudicato.
In Ginevra, nel suo essere senza filtri, nell’aver capito che non esiste un
modello di vita ideale, assoluto, giusto, cui attenersi, Viola vede un punto di riferimento. C’è una frase dal valore epifanico con cui Ginevra assolve il
padre che a lungo ha disprezzato: ognuno è quello che riesce ad essere.
E questa è la profondissima rivelazione che colpisce Viola e forse la cambia
per sempre. È in questo momento che inizia la svolta di Viola verso la speranza che un’altra vita è possibile e che bisogna
accettare anche l’imperfezione, l’indefinitezza, le asimmetrie dell’esistenza.
In definitiva potremmo
considerare La stagione bella un romanzo sulla ricerca della felicità. Sei
felice? è la domanda che Viola rivolge all’amica Valeria, ma più probabilmente a sé
stessa.
Verso la fine del libro
di F. Carofiglio c’è un’immagine che monopolizza l’attenzione di Viola, giunta
in Bretagna per le sue ricerche: l’oceano è di piombo, le onde si infrangono
sulla scogliera, un paio di uccelli marini si lanciano a precipizio sott’acqua,
riemergendo subito…
Nel dolore si precipita, dal dolore si riemerge.
Omnia mutantur, πάντα ῥεῖ.
Teresa D'Errico
(Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/letteratura/francesco-carofiglio-la-stagione-bella/ )