venerdì 17 maggio 2024

L'ARCO NASCOSTO - POESIA INEDITA DI IDA LUCIA MUSCI

 

Poesia, dal nulla salvami

dalla droga del vacuo

e dell’effimero.

Ridammi l’anima…

(Ida Lucia Musci, Poesia)

Nell’era del digitale, della tirannide mercatista che definisce valori solo quelli funzionali all’economia, in un presente travolto dalle seduzioni della società dello spettacolo, dai vantaggi di uno sviluppo che si rinnova senza soste lasciando però macerie dietro di sé, in una società sul punto di implodere per il cumulo di errori che la sopita memoria storica non ha saputo riconoscere, forse, come già presagiva Montale, non c’è più spazio per la poesia: in un mondo del genere, diceva il poeta ligure ritirando il Nobel, che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo.

Senza dubbio è vero, oggi l’attenzione per la poesia è ridotta. 

La poesia è arte difficile, richiede tempo … e la lentezza è un principio che confligge profondamente con la cultura fast che connota il nostro tempo. Tuttavia scrivere versi resta una delle inclinazioni più profonde dell’animo umano, per alcuni è quasi un’esigenza e forse in un’epoca di profonda crisi dei fondamenti come la nostra, proprio i dubbi dei poeti, i loro slanci propositivi, il loro dolore così vicino a noi, le loro speranze, labili, sì, ma pure espresse, ci salveranno dal vacuo e dall’effimero cui la Storia ci sta consegnando.

Sono i versi dei poeti, la loro voce, la forza della parola scritta che consentono – come nota J. Cortázar - di trovare strade che ci aiutino ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze e fattori negativi che oggi il presente purtroppo non lesina. Sono i poeti che ci donano quello che Borges chiamava il miracolo segreto, la porosità cioè di un tempo che dietro l’apparente suo svolgersi ciclico e cronologico, è fatto di epifanie, dilatazioni, soste, varchi, lampi e miraggi: è lì che si annida la Poesia a cui I. L. Musci si appella e che con apostrofe diretta chiama in causa: dal nulla salvami, ridammi l’anima.

A questo serve la Poesia, forza irrinunciabile anche nei tempi in cui sembra più facile appendere le cetre alle fronde dei salici: a restituire l’anima al nostro tempo del disamore.

Nella silloge ancora inedita di I.L. Musci, intitolata Ascolterò le sinfonie delle stagioni, gli spunti di riflessione sono molteplici. Tra rimandi montaliani e baudelairiani, accanto a una personale rivisitazione della migliore tradizione lirica, c’è in particolare un componimento, (L’arco nascosto) che con originalità, delicatezza e acuta lucidità riesce a cogliere quello che l’essere umano da sempre cerca: un varco – lo chiamerebbe così Montale – che consenta a ciò che conta di avere spazio.

L’ ARCO NASCOSTO

Maria dalle mani gonfie per l’artrite

quella che abitava all’arco nascosto

ha passato i suoi giorni

a cuocere verdure e sciorinare bucati.

Ha visto e curato figli e nipoti

ed ha parlato con le vicine del tempo

e della processione del patrono,

né mai ha svelato Orione all’orizzonte

e il sole che cade nel mare della sera;

né ha pensato con Cartesio

pianto con Leopardi

provato il brivido

dell’ Eterno Ritorno

che, solo, poteva consolarla

nel momento di andare.

Pure è stata felice

in un giorno, in un’ora;

ha riso alla vita

e al nuovo sole

senza chiedersi se fosse il suo.

Ma io che vedo

che conosco e so

conto costellazioni

leggo poeti

cerco auspici di voli

vorrei lasciare tracce

e possedere silenzi e aperti cieli,

non riesco a trovare

il mio posto nel mondo

e, nel tempio di memorie,

la mia festa perfetta. 

L’alta sapienza è inutile

nel mio arco nascosto:

dovrò saper cercare

a testa china

pietre sconnesse

per conoscerle

amarle

e non cadere.

 

L’immagine di Maria intenta al suo lavoro ordinario  - cuocere verdure e sciorinare bucati – ha un enorme potere rivelativo e avvicina questa umile donna che abitava all’arco nascosto, ai grandi della letteratura.

C’è un passo di Cent’anni di solitudine che chiarisce ciò che nella sua inconsapevole acutezza Maria comprende bene:

In quella notte interminabile, mentre il colonnello Gerineldo Márquez rievocava i suoi pomeriggi morti nella stanza da cucito di Amaranta, il colonnello Aureliano Buendía grattò per molte ore, cercando di romperlo, il duro guscio della sua solitudine. Gli unici istanti di felicità, dal pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio, li aveva trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d'oro. Aveva dovuto promuovere trentadue guerre, e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con la morte e rivoltarsi come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant'anni di ritardo i privilegi della semplicità.

Esattamente come il principe di Salina nel Gattopardo, Aureliano Buendia sta cercando di individuare i momenti della vita in cui è stato felice, fa un bilancio esistenziale: sta isolando attimi e istanti, sta eliminando tutto il superfluo.

Anche Tomasi di Lampedusa infatti fa dire al suo meditativo personaggio che voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici e perciò si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto.

Pesciolini d’oro per Marquez, Pagliuzze d’oro per Tomasi di Lampedusa: due immagini simboliche che evocano qualcosa che brilli nel grigiore della vita. Maria nella sua ordinaria quotidianità l’ha saputo trovare: ha saputo ridere alla vita, scorgendo la luce del nuovo sole senza chiedersi se fosse il suo, non ha cercato risposte nell’alta sapienza, nella saggezza dei filosofi o nella cabale delle costellazioni. Ma ha curato, ha parlato: così è stata felice. Ha trovato l’essenza dell’umano nella cura, nell’amore, nella parola, nell’incontro, nella capacità di ridurre le distanze con l’altro.

Quelle di Aureliano Buendia, del principe di Salina e di Maria sono sottrazioni volontarie: consistono nell’isolare quei momenti della nostra esistenza, recuperare dall’archivio della memoria quegli attimi in cui la vita è stata degna di essere vissuta. Maria con la sua aderenza all’autenticità dell’esistenza, lo ha capito.

Noi nasciamo, cresciamo e cerchiamo di aggiungere, accumulando investimenti materiali, esperienze connesse al lavoro, al divertimento, alla realizzazione di noi stessi in molteplici ambiti, perché consideriamo – da sempre – l’addizione come un’acquisizione positiva (in matematica si segna con un +). La sottrazione al contrario tende ad essere vista come perdita, un meno in matematica, al punto che nel linguaggio giuridico parliamo di sottrazione addirittura per indicare un atto criminoso, un furto.

Invece Aureliano Buendia scopre una verità sconvolgente, con quasi quarant’anni di ritardo, ma la scopre: i privilegi della semplicità. E questa luminosa evidenza ha irradiato anche la vita di Maria.

I. L.Musci sa bene quanto pesino le noie dell’eccesso (in Miserere), è consapevole perfettamente del fatto che il pieno della vita ci ha reso vuoto il cuore  (ancora in Miserere)  così come Aureliano Buendia capisce che c’è troppo superfluo intorno a noi e che, invece, l’essenziale è fatto di poche cose, semplicità è la parola-chiave: sottrarre per isolare l’essenziale.

Nella vita IL MENO DIVENTA PIÙ se capiamo dove rivolgere la nostra attenzione e dedizione. Dobbiamo imparare a leggere l’esistenza con gli stessi occhi di Maria e capire che cosa veramente conta. Occorre saperla filtrare e passarla al setaccio, la vita. Orazio diceva alla sua Leuconoe  - nella famosa Ode I,11, nota come Carpe diem - sapias, vina liques: usava l’immagine del filtrare il vino per separare la parte buona da ciò che si deposita sul fondo. E rivolgendosi alla sua giovane, inesperta, amica Leuconoe il poeta le dice sii saggia, la esorta con il congiuntivo sapias, che prima ancora di significare, appunto, sii saggia, vuol dire “da’ sapore ai tuoi giorni” con un atto di attento discernimento nella costruzione della gerarchia di valori verso i quali orientare i giorni dell’esistenza.

La stessa cura e attenzione alla semplicità  ricorre nella Lattaia di Vermeer,

J. 
figura molto vicina alla Maria di I. L. Musci: il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica nel loro accamparsi al centro del quadro, dritti davanti allo spettatore. Nel gesto della Lattaia il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all'infinito e racchiude il segreto della vita.

Il lavoro ben fatto della Lattaia, il gesto necessario di Maria (cuocere verdure e sciorinare bucati, curare figli e nipoti) ma anche quello non necessario eppure bello (parlare con le vicine del tempo e della processione del patrono) nel mondo che dispiega il suo caos sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno: di queste esperienze elementari (la semplicità, dice Aureliano Buendia) è fatta la trama delle occasioni minime che compongono la nostra esistenza, occasioni minime che tocca a noi dilatare e riempire di senso. E per questo non serve Cartesio, scrive I.L. Musci, che con l’amarezza intensa dei Poeti dice a se stessa: ma io che vedo/che conosco e so/…/non riesco a trovare/il mio posto nel mondo. La conclusione cui giunge la poetessa è molto vicina alla dura constatazione di Pasolini quando nelle Ceneri di Gramsci ammette: io possiedo… io possiedo la storia … ne sono illuminato: ma a che serve la luce?

La verità che Maria sa cogliere nella sua schietta semplicità è che nella cura, nelle parole scambiate con le amiche è racchiuso ciò che veramente conta per l’essere umano.

E anche se la vita è fatta di pietre sconnesse, scrive la poetessa, vale la pena imparare ad amarle, perché è forse tra quelle sconnessioni che si nasconde il montaliano anello che non tiene, quella verità, cioè, che la logica ferrea delle leggi deterministiche non potrà mai cogliere e che, invece, solo la Poesia può far intuire.

In fondo, questo è la Poesia, suggerisce I. L. Musci, l’incerto tentativo di procedere sulla polvere di inutili giorni (in La mia strada) alla ricerca di una possibilità. Certo, l’arida foglia/ che rotola sui massi/ha perso linfa… ma pure ritroverà la terra/ germoglierà in future primavere./ Tutto ritorna dall’oblio/ per rinascere ancora (Oblivion)

Rinascere ancora. Sì, nonostante tutto, la poesia può rinascere ancora, per la speranza c’è ancora spazio.

Lo stile di I.L. Musci è denso: parte dalla realtà e fa delle cose del mondo emblemi di stati d’animo universali. L’osservazione va oltre il fenomeno e si spinge dentro l’esistenza: per esempio, il nostro labirintico cercare risposte che mancano, abbagliati da un sole che non illumina, ma, piuttosto, acceca e stordisce, è reso icasticamente con l’immagine di giri di serpi/ abbacinate dal sole (in Cosa resta?).

E questa capacità è propria degli artisti, è il talento di vedere quello che gli altri non hanno visto, o forse, meglio, come scrive R. Carver, è il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato.

                                                                                                                           Teresa D'Errico