Poesia, dal nulla
salvami
dalla droga del
vacuo
e dell’effimero.
Ridammi l’anima…
(Ida Lucia Musci, Poesia)
Nell’era del digitale, della
tirannide mercatista che definisce valori solo quelli funzionali all’economia, in
un presente travolto dalle seduzioni della società dello spettacolo, dai vantaggi
di uno sviluppo che si rinnova senza soste lasciando però macerie dietro di sé,
in una società sul punto di implodere per il cumulo di errori che la sopita memoria
storica non ha saputo riconoscere, forse, come già presagiva Montale, non c’è
più spazio per la poesia: in un mondo del genere, diceva il poeta ligure
ritirando il Nobel, che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi
tempeste è, più che probabile, certo.
Senza dubbio è vero, oggi l’attenzione per la poesia è ridotta.
La poesia è arte difficile, richiede tempo … e la lentezza
è un principio che confligge profondamente con la cultura fast che
connota il nostro tempo. Tuttavia scrivere versi resta una delle inclinazioni
più profonde dell’animo umano, per alcuni è quasi un’esigenza e forse in un’epoca di profonda crisi dei fondamenti come la nostra, proprio i dubbi
dei poeti, i loro slanci propositivi, il loro dolore così vicino a noi, le loro
speranze, labili, sì, ma pure espresse, ci salveranno dal vacuo e dall’effimero
cui la Storia ci sta consegnando.
Sono i versi dei poeti, la loro voce,
la forza della parola scritta che consentono – come nota J. Cortázar - di trovare
strade che ci aiutino ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze
e fattori negativi che oggi il presente purtroppo non lesina. Sono i poeti
che ci donano quello che Borges chiamava il miracolo segreto, la porosità
cioè di un tempo che dietro l’apparente suo svolgersi ciclico e cronologico, è
fatto di epifanie, dilatazioni, soste, varchi, lampi e miraggi: è lì che si
annida la Poesia a cui I. L. Musci si appella e che con apostrofe diretta
chiama in causa: dal nulla salvami, ridammi l’anima.
A questo serve la Poesia, forza
irrinunciabile anche nei tempi in cui sembra più facile appendere le cetre alle
fronde dei salici: a restituire l’anima al nostro tempo del disamore.
Nella silloge ancora inedita di
I.L. Musci, intitolata Ascolterò le sinfonie delle stagioni, gli spunti
di riflessione sono molteplici. Tra rimandi montaliani e baudelairiani, accanto
a una personale rivisitazione della migliore tradizione lirica, c’è in
particolare un componimento, (L’arco nascosto) che con originalità, delicatezza
e acuta lucidità riesce a cogliere quello che l’essere umano da sempre cerca:
un varco – lo chiamerebbe così Montale – che consenta a ciò che conta di avere
spazio.
L’ ARCO NASCOSTO
Maria dalle mani gonfie per
l’artrite
quella che abitava all’arco
nascosto
ha passato i suoi giorni
a cuocere
verdure e sciorinare bucati.
Ha
visto e curato figli e nipoti
ed
ha parlato con le vicine del tempo
e
della processione del patrono,
né mai ha svelato Orione
all’orizzonte
e il sole che cade nel mare della
sera;
né ha pensato con Cartesio
pianto con Leopardi
provato il brivido
dell’ Eterno Ritorno
che, solo, poteva consolarla
nel momento di andare.
Pure è stata felice
in un giorno, in un’ora;
ha riso alla vita
e al nuovo sole
senza chiedersi se fosse il suo.
che
conosco e so
conto
costellazioni
leggo
poeti
cerco
auspici di voli
vorrei
lasciare tracce
e
possedere silenzi e aperti cieli,
non
riesco a trovare
il
mio posto nel mondo
e, nel tempio di memorie,
la mia festa perfetta.
L’alta
sapienza è inutile
nel mio arco nascosto:
dovrò saper cercare
a testa china
pietre sconnesse
per conoscerle
amarle
e non cadere.
L’immagine di
Maria intenta al suo lavoro ordinario - cuocere
verdure e sciorinare bucati – ha un enorme potere rivelativo e avvicina
questa umile donna che abitava all’arco nascosto, ai grandi della
letteratura.
C’è un passo di
Cent’anni di solitudine che chiarisce ciò che nella sua inconsapevole
acutezza Maria comprende bene:
In quella
notte interminabile, mentre il colonnello Gerineldo Márquez rievocava i suoi
pomeriggi morti nella stanza da cucito di Amaranta, il colonnello Aureliano
Buendía grattò per molte ore, cercando di romperlo, il duro guscio della sua solitudine.
Gli unici istanti di felicità, dal pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato
a conoscere il ghiaccio, li aveva trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove
passava il tempo montando pesciolini d'oro. Aveva dovuto promuovere trentadue
guerre, e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con la morte e rivoltarsi
come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant'anni
di ritardo i privilegi della semplicità.
Esattamente come
il principe di Salina nel Gattopardo, Aureliano Buendia sta cercando di
individuare i momenti della vita in cui è stato felice, fa un bilancio
esistenziale: sta isolando attimi e istanti, sta eliminando tutto il superfluo.
Anche Tomasi di
Lampedusa infatti fa dire al suo meditativo personaggio che voleva
raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze
d’oro dei momenti felici e perciò si provò a contare per quanto tempo
avesse in realtà vissuto.
Pesciolini
d’oro per Marquez, Pagliuzze d’oro per Tomasi di Lampedusa: due
immagini simboliche che evocano qualcosa che brilli nel grigiore della vita.
Maria nella sua ordinaria quotidianità l’ha saputo trovare: ha saputo ridere
alla vita, scorgendo la luce del nuovo sole senza chiedersi se fosse il suo,
non ha cercato risposte nell’alta sapienza, nella saggezza dei filosofi o
nella cabale delle costellazioni. Ma ha curato, ha parlato: così
è stata felice. Ha trovato l’essenza dell’umano nella cura, nell’amore, nella
parola, nell’incontro, nella capacità di ridurre le distanze con l’altro.
Quelle di Aureliano Buendia, del
principe di Salina e di Maria sono sottrazioni volontarie: consistono
nell’isolare quei momenti della nostra esistenza, recuperare dall’archivio
della memoria quegli attimi in cui la vita è stata degna di essere vissuta.
Maria con la sua aderenza all’autenticità dell’esistenza, lo ha capito.
Noi nasciamo, cresciamo e
cerchiamo di aggiungere, accumulando investimenti materiali, esperienze
connesse al lavoro, al divertimento, alla realizzazione di noi stessi in
molteplici ambiti, perché consideriamo – da sempre – l’addizione come
un’acquisizione positiva (in matematica si segna con un +). La sottrazione al
contrario tende ad essere vista come perdita, un meno in matematica, al punto
che nel linguaggio giuridico parliamo di sottrazione addirittura per indicare
un atto criminoso, un furto.
Invece Aureliano Buendia scopre
una verità sconvolgente, con quasi quarant’anni di ritardo, ma la scopre: i
privilegi della semplicità. E questa luminosa evidenza ha irradiato anche la vita di Maria.
I. L.Musci sa bene quanto pesino
le noie dell’eccesso (in Miserere), è consapevole perfettamente
del fatto che il pieno della vita ci ha reso vuoto il cuore (ancora in Miserere) così come Aureliano Buendia capisce che c’è
troppo superfluo intorno a noi e che, invece, l’essenziale è fatto di poche
cose, semplicità è la parola-chiave: sottrarre per isolare l’essenziale.
Nella vita IL MENO DIVENTA PIÙ se
capiamo dove rivolgere la nostra attenzione e dedizione. Dobbiamo imparare a leggere
l’esistenza con gli stessi occhi di Maria e capire che cosa veramente conta. Occorre saperla filtrare e passarla al setaccio, la vita. Orazio diceva alla sua Leuconoe
- nella famosa Ode I,11, nota come Carpe
diem - sapias, vina liques: usava l’immagine del filtrare il vino
per separare la parte buona da ciò che si deposita sul fondo. E rivolgendosi alla
sua giovane, inesperta, amica Leuconoe il poeta le dice sii saggia, la
esorta con il congiuntivo sapias, che prima ancora di significare,
appunto, sii saggia, vuol dire “da’ sapore ai tuoi giorni” con un atto
di attento discernimento nella costruzione della gerarchia di valori verso i quali
orientare i giorni dell’esistenza.
La stessa cura e attenzione alla semplicità ricorre nella Lattaia di Vermeer,
J. |
Il lavoro ben fatto della Lattaia, il gesto
necessario di Maria (cuocere verdure e sciorinare bucati, curare figli e
nipoti) ma anche quello non necessario eppure bello (parlare con le vicine del tempo e
della processione del patrono) nel mondo che dispiega il suo caos sotto i
nostri occhi, giorno dopo giorno: di queste esperienze elementari (la semplicità,
dice Aureliano Buendia) è fatta la trama delle occasioni minime che compongono
la nostra esistenza, occasioni minime che tocca a noi dilatare e riempire di
senso. E per questo non serve Cartesio, scrive I.L. Musci, che con l’amarezza
intensa dei Poeti dice a se stessa: ma io che vedo/che conosco e so/…/non
riesco a trovare/il mio posto nel mondo. La conclusione cui giunge la poetessa
è molto vicina alla dura constatazione di Pasolini quando nelle Ceneri di
Gramsci ammette: io possiedo… io possiedo la storia … ne sono
illuminato: ma a che serve la luce?
La verità che Maria sa cogliere
nella sua schietta semplicità è che nella cura, nelle parole scambiate con le amiche
è racchiuso ciò che veramente conta per l’essere
umano.
E anche se la vita è fatta di pietre
sconnesse, scrive la poetessa, vale la pena imparare ad amarle,
perché è forse tra quelle sconnessioni che si nasconde il montaliano anello
che non tiene, quella verità, cioè, che la logica ferrea delle leggi
deterministiche non potrà mai cogliere e che, invece, solo la Poesia può far
intuire.
In fondo, questo è la Poesia, suggerisce I. L. Musci, l’incerto
tentativo di procedere sulla polvere di inutili giorni (in La mia
strada) alla ricerca di una possibilità. Certo, l’arida foglia/ che rotola sui massi/ha perso linfa… ma pure
ritroverà la terra/ germoglierà in future primavere./ Tutto ritorna dall’oblio/ per
rinascere ancora (Oblivion)
Rinascere ancora. Sì,
nonostante tutto, la poesia può rinascere ancora, per la speranza c’è ancora
spazio.
Lo stile di I.L. Musci è denso:
parte dalla realtà e fa delle cose del mondo emblemi di stati d’animo
universali. L’osservazione va oltre il fenomeno e si spinge dentro l’esistenza:
per esempio, il nostro labirintico cercare risposte che mancano, abbagliati da
un sole che non illumina, ma, piuttosto, acceca e stordisce, è reso
icasticamente con l’immagine di giri di serpi/ abbacinate dal sole (in Cosa
resta?).
E questa capacità è propria degli
artisti, è il talento di vedere quello che gli altri non hanno visto, o forse,
meglio, come scrive R. Carver, è il dono di vedere quello che tutti hanno
visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato.