giovedì 17 agosto 2023

POETRY KITCHEN

                                             

Mentre altrove piovono bombe sparano
droni cannoni e altre simili cose
la giraffa spicca il volo supera la muraglia
sotto il rullo di tamburi a sequestrare
il cielo
(R. Ciccarone, "Mentre altrove piovono bombe", Poetry kitchen, 2023)     

Orazio nell’Ars poetica scriveva: ut pictura poesis. La tradizione ha ritenuto la poesia simile a un quadro, in grado cioè di rappresentare la realtà, e perciò sin dai tempi più remoti è stata sempre dotata di un’intrinseca comprensibilità finalizzata alla trasmissione di un messaggio chiaro e definito. Quella tradizionale si configura perciò come una poesia di “cose” nel senso che – anche quando gli sperimentalismi sono diventati più arditi e acuti -  c’è sempre stato un rapporto diretto tra le parole e le cose, tra l’idea e il linguaggio atto ad esprimerla. Tuttavia il Novecento con il suo carico di irrazionali atrocità culminate nell’Olocausto e nell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, con l’inquietante “banalità del male” commesso da persone ordinarie e ritenute benpensanti, con quella sua inquietante e forse irripetibile atmosfera che Mark Fischer ha definito wird and eerie e che ha reso la distopia un dato di fatto, ebbene il Novecento ha rotto il legame tra le parole e le cose. Quando le "follie di morte", per usare un’espressione montaliana, hanno dettato tempi e fatti della Storia, mistificando il linguaggio e frantumando ogni orizzonte di senso, quale possibilità comunicativa può ancora essere attribuita alla poesia? Se c’è un vuoto di senso è a quel vuoto che la poesia deve dare voce.

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus: così U. Eco concludeva il suo celebre romanzo Il nome della rosa. Ci restano solo nomi e ogni nome è un flatus vocis che non approda a nessun significato definito e compiuto. È desolazione? È libertà? I poeti non giudicano e non hanno risposte né perciò possono fornirle, però traducono nelle loro scelte lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui vivono.

Incontri di suoni, fascinazioni lessicali, accostamenti inediti e inusuali tra nomi, personaggi mitologici, oggetti tratti dalla quotidianità più ordinaria, frantumazione della metrica, scomparsa delle rime, andamento prosastico, assenza di punteggiatura sono i tratti di un modo diverso di fare poesia, come dimostrano gli artisti che nelle due antologie di Poetry Kitchen (la prima pubblicata nel 2022, la seconda nel 2023) hanno raccolto versi ricchi di una dirompente carica di libertà espressiva. Sebbene nell'antologia edita nel 2023, M. L. Colasson dichiari apertamente che "la poesia kitchen non ha identità alcuna (...) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia", tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico-rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia.


Poetry kitchen, 2022

Nella Poetry Kitchen non c’è rabbiosa cesura con il passato, piuttosto si assiste a un riuso libero del patrimonio culturale della tradizione, dissezionata, atomizzata e riadattata per dare vita a forme completamente nuove, attraversate da correspondances capaci di avvicinare cose e parole normalmente irrelate ma che la creatività artistica può accostare e che la libertà interpretativa ha il diritto di ricomporre, scorgendovi significati possibili, brandelli di verità nascoste, suggestioni emotive: "la poesia assomiglia a un unicorno vestito da pappagallo" (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023)

La Poetry kitchen è decostruttiva, slegata dal referente.  Nell'introduzione alla seconda raccolta (2023) G. Linguaglossa osserva che la Poetry kitchen è "un gioco di specchi (...) di fuochi d'artificio (...) una bizarrerie". 

Poetry kitchen, 2023

“Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l'ora che si sfasci la sintassi del Mondo”, scrive I. Calvino  nell’excipit del Castello dei destini incrociati. E così smembrando sintassi e ritmi, la Poetry kitchen registra lo sfaldamento delle archittetture tradizionali ritenute incrollabili,  dà atto della caduta di quelle granitiche cattedrali di certezze e si apre a letture personali, sollecita contributi esegetici che mettano in gioco la creatività di chi legge, intercetta lo sguardo di chi cerca strade non battute dai più. "Il mito è falso, ha narrato il falso", nota G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) alludendo all'inesorabile crepuscolo degli idoli  cui la tradizione si è illusoriamente aggrappata.

Eppure tra i labirinti delle possibilità sembrano farsi strada alcuni punti fermi.

Si avverte, per esempio nei versi di Raffaele Ciccarone(Poetry kitchen 2022) un acuto rilievo rivolto alla contemporaneità e alle sue derive: “una Olivetti 32 vuole descrivere la storia/ dice di averla tutta nei tasti”. Emerge chiaramente il riferimento alla manipolazione dei fatti storici operata da una sempre più incontrollabile tirannide tecnologica simboleggiata dalla “Olivetti 32”. Si tratta di una sottile denuncia contro l’arroganza di un presente dominato dal prometeico vortice di un’iperdigitalizzazione che reprime ogni tentativo di inversione della rotta: il potere dei “tasti” schiaccia ogni alternativa. Controllati da un invisibile Panopticon viviamo in una dittatura algoritmica, offrendoci spontaneamente alla sovraesposizione, sentendoci erroneamente liberi di esprimerci senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità che sconfina nel controllo. L’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti un regime di sorveglianza digitale: la macchina possiede ormai la storia e “dice di averla tutta nei tasti”. E non c’è scampo: la tirannide tecnologica non lascia spazi vuoti, profana persino gli altari delle chiese: “il prete perdonava tutti seduto al touch screen” (F.P. Intini, Poetry kitchen, 2023)

Con tono amaramente ironico Giorgio Linguaglossa nei suoi componimenti, registra il definitivo tramonto della domanda e del dubbio: “i punti interrogativi si sono ribellati e sono stati sostituiti/ dai punti esclamativi” (Poetry kitchen, 2023). L’età della ricerca, dei perché, dei percorsi anche tortuosi attraverso cui si sperimentava il piacere della conoscenza fatta di curiositas, è finito e con la domanda è per sempre scomparso il tempo dell’ascolto, dell’apertura all’altro da sé. La pretesa dell’assoluta validità delle proprie affermazioni si accampa oggi con la perentorietà propria di chi è pronto a schiacciare il punto di vista altrui. Sono le domande che creano relazioni, dialoghi, attese di risposte, confutazioni, confronti, incontri, possibili convergenze, altrimenti è l’afasia. La scomparsa della domanda come sparizione dell’altro determina una tribalizzazione dei comportamenti: mi confronto solo con chi la pensa come me e chi non è con me è contro di me. Persino l’algoritmo asseconda questa chiusura tribale nelle filter bubble che restringono l’orizzonte delle informazioni a ciò che asseconda i gusti e le preferenze personali. Le conseguenze sono tristi: isolamento intellettuale, riduzione del confronto, polarizzazione delle opinioni e di conseguenza incremento degli scontri a danno del dialogo e del rispetto delle posizioni altrui.

D’altra parte, se, però, mancano gli approdi, è comprensibile l’atto di ribellione dei punti interrogativi: se il verbum non riesce più a dire il verum, la domanda è inutile e la parola può diventare vocabulum, mera vox clamans in deserto con cui “giocare” come i poeti kitchen dimostrano. Quello dell’Essere resta un sogno, forse un desiderio che la storia ha spazzato via e, scrive F.P. Intini, citando i versi di Quasimodo, giace “trafitto da un raggio di Sole”, un Sole che come un dardo ferisce senza ormai illuminare più niente, senza più aura divina. E perciò quella sullo “smarrimento” del mondo contemporaneo resta kafkianamente una “domanda” senza risposta, consegnata all’assurdo: “alla domanda sullo smarrimento, la pratica passò di ufficio in ufficio” ((F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023).

Siamo immersi in un caos febbricitante: “il rumore della marmitta fracassa il tetto/il vetro si sbriciola”, (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), quello delle città è un “ruggito” che aliena (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023) e che ricorda, con la sua carica spersonalizzante, la rue assourdissante che rendeva a Baudelaire impossibili i suoi desideri d’incontro e d’amore. E in questa realtà confusa, “in assenza di una scacchiera” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), trasciniamo i nostri giorni, condannati ormai a una politica senza progetti, una politica incapace cioè di suggerire una direzione ai destini di masse travolte da false promesse e ripetuti inganni. “La lunga mano della pubblicità” (F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023) condiziona scelte e condotte, colonizza l’immaginario, ha preso il posto della politica nel fornire risposte ai bisogni della gente.

I poeti antologizzati nei due volumi Poetry kitchen con il loro tocco leggero planano sul presente constatandone – senza grevi condanne o nostalgie per stagioni irrevocabili - la palustre immobilità: “la girandola è ferma, il vento assente” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Sembra non esserci più spazio per imprese eroiche, per ambizioni, aspirazioni grandiose: la poesia dà voce allo stato d’animo di chi, nella sua prigione quotidiana, si sente “come un gambero messo in padella che frigge/ e saltella” (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023). Ma forse anche gli eroi del mito sono un inganno e G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) ne rivela il vero volto: Menelao come un uomo qualsiasi, “soffre di eiaculatio praecox”, Clitennestra “posa mezza nuda per il calendario Pirelli” e Menelao, in fondo, è solo un “cornuto”: la tradizione ha mascherato la realtà, ha inventato superbe fole per nascondere l’infinità fragilità dell’umana condizione.

E nell’assuefazione generale al “collasso del simbolico” (G. Linguaglossa, Poetry Kitchen 2023) probabilmente non rimane che “contemplare (…) le acrobazie che un ragazzo fa fare al suo wifi drone” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Ebbene, questo forse oggi resta da fare ai poeti: "giocare" con le parole per "sequestrare il cielo" (R. Ciccarone, Poetry kitchen 2023), perché nonostante tutto è in quelle “acrobazie” della creatività che si nasconde la chiave che aprirà ai giovani le porte del futuro.

"Il genere umano non può sopportare troppa realtà", osservava T. S. Eliot. Perciò, suggerisce R. Ciccarone, esiste la forza della poesia, per spiccare il volo, per superare la montaliana "muraglia" di un'ingabbiante datità in cui tristemente, scriveva C. Sbarbaro, "tutto quello/ che è, è soltanto quel che è".

 


venerdì 16 giugno 2023

ANGELO PIEMONTESE - IL LUNGO ADDIO ALL'IMPEGNO

 

Con Il lungo addio all’impegno. La narrativa italiana dalla ricostruzione alla caduta del Muro di Berlino, Angelo Piemontese prosegue l’analisi critica del panorama letterario italiano iniziata con la monografia su Pavese (Riflessi sull’anima) e maturata poi con il successivo saggio Realismo e Neorealismo. Correnti involontarie.


Il lungo addio all’impegno indica le tappe del cedimento progressivo di quella passione intellettuale, che aveva avuto nel Neorealismo la sua vetta apicale e che aveva trovato alcune delle sue traduzioni etiche più nobili nell’esplicito rifiuto di Pavese verso il modello di vita fascista e nella distinzione operata da Vittorini tra Uomini e no. Ne è derivato uno spazio vuoto che - nota chiaramente Piemontese - è rimasto incolmato o che si è tradotto nella produzione di una semplice letteratura di consumo.

Con il trionfo di un pensiero unico a sfondo mercatista, il dominio della società delle immagini e la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale da mediatore valoriale a mero intrattenitore, ad opera dei mass media, e infine con l’avvento del Postmoderno e il crollo di ogni ubi consistam, ben registrato da Eco nel suo bestseller Il nome della rosa, gli intellettuali sono stati costretti a prendere atto della marginalità della letteratura e del suo ruolo rispetto ad un mondo assuefatto a un “ilare nichilismo” (per usare una definizione cara a R. Luperini), ad un edonismo fatto di soddisfazioni istantanee, caratterizzato dalla pretesa dell’I want it all, I want it now, come cantavano i Queen. Sullo sfondo di questo mondo senza orizzonti di significato e segnato dall’evaporazione di senso, A. Piemontese registra la rinuncia del ceto intellettuale a tracciare possibili prospettive, a cercare risposte pur nella rassegnata consapevolezza della loro insufficienza e mancanza di definitività. Si affermano di conseguenza, tra le tendenze narrative, la graduale chiusura nell’analisi psicologica, nella dimensione privata, lo slittamento verso intrecci antistorici e antimanzoniani, l’approdo ad allegorie intrappolanti come quella del labirinto, scelta per esempio da I. Calvino come emblema di un mondo privo di senso, un ostacolo certo da affrontare virilmente, ma senza alcuna garanzia di una exit strategy.

Angelo Piemontese innesta la sua indagine critica su un quadro storico-culturale accuratamente delineato e individua alcuni fattori di destabilizzazione che costituiscono il background di cambiamenti epocali dal secondo dopoguerra in poi:

-       la crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono della terra e dei comuni del Mezzogiorno d’Italia;

-       la fine della famiglia tradizionale e l’avvento di nuove forme di vita in comune;

-       boom economico e radicale trasformazione di stili di vita, immaginario, ruoli sociali, dinamiche relazionali;

-       influsso massiccio dei media nella omologazione di gusti e comportamenti.

Il fallimento, poi, dell’azione bellica intrapresa dagli USA in Vietnam, con il carico enorme di perdite umane e materiali, con il lascito pesante di un’umanità impoverita sotto tutti i profili, è considerato da A. Piemontese un momento estremamente significativo, da cui prende avvio una nuova condizione culturale: vengono meno le residue persistenze di forme di impegno intellettuale e tendono a prevalere, invece, atteggiamenti di ripiegamento, sfiducia, smarrimento che segnano l’abbandono di ogni slancio propositivo, di qualsiasi spinta attivistica o anche solo volontaristica.

Ancora prima dell’abbassamento della letteratura a prodotto di mercato – effetto della forza pervasiva di concezioni iperliberistiche che hanno nel tempo colonizzato ogni campo d’azione umana – Piemontese fa coincidere, per esempio attraverso l’asse Tomasi di Lampedusa-Morante, la fine dell’impegno con la fine della Storia, cioè della storia manzonianamente intesa come un cammino progressivo verso un fine ultimo positivo e le cui tappe, pur dolorose, si configurano come momenti, sì, critici, ma pur sempre superabili in vista di uno scopo che sub specie aeternitatis si situa come bene superiore.

Già dopo l’emblematico naufragio verghiano della Provvidenza, Il gattopardo è chiaramente citato da Piemontese come espressione dello smarrimento delle coscienze e come riferimento di un ceto intellettuale che ha rinunciato alla sua carica civile, un ceto che del ripiegamento introspettivo ha fatto la sua cifra ormai distintiva e che nella rinuncia riconosce il marchio della propria impotenza rispetto ad un’azione trasformativa e incisiva sulla società. Del resto, lo dice chiaramente il Principe di Salina a Chevalley, parlando dei Siciliani che di fatto nel suo discorso assurgono a categoria esistenziale e smettono, cioè, di essere un’entità meramente geopolitica: “siamo stanchi e svuotati” esattamente come la generazione di intellettuali che Tomasi di Lampedusa rappresenta, un ceto, cioè, spossato dal peso di un “secolo breve” – espressione con cui E. Hobsbawm ha definito il Novecento – e schiacciato da quell’insostenibile leggerezza dell’essere alla quale Kundera ha addebitato l’irrimediabile perdita di tutti i parametri di riferimento nel magma indistinto di un fluido relativismo.

L’atroce carica distruttiva del Novecento sembra trovare una rappresentazione ancora più chiara nel romanzo La storia di Elsa Morante. Secondo la nota scrittrice la storia travolge tutti, è il regno dell’assurdo. All’incipit del romanzo, lo stupro di Ida Ramundo ad opera di un giovane soldato nazista, è l’allegoria di un’Italia – forse di un’intera Europa – stuprata, violata irrimediabilmente da eventi che hanno prodotto un vulnus non ancora cicatrizzato. E di fronte a questo “scandalo” – termine che Morante usa per definire la Storia come un apocalittico trauma che distrugge senza pietà – quale può essere il ruolo dell’intellettuale? Quali i binari della sua azione? Come può ancora configurarsi il suo impegno?

A simili quesiti c’è forse una possibile, transitoria, risposta: all’esistenza intesa montalianamente come “immoto andare” lungo invalicabili cortine e muraglie, Piemontese oppone con Calvino, il valore della sfida al labirinto dell’esistenza: del labirinto bisogna conoscere le mappe, occorre sapere che non esistono facili vie d’uscita, ma agli intellettuali, alla letteratura, si chiede di non cedere, di non accettare la resa incondizionata all’oggettività come dato immutabile. Gli intellettuali non possono abdicare al loro compito, cioè, dare forma all’informe, nota Piemontese, rendere chiare le cose, “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”, scrive Calvino nelle Città invisibili.

L’autore del Lungo addio all’impegno attraverso la sua puntuale analisi della letteratura del Novecento traccia un quadro della nostra storia e scegliendo di chiudere il suo saggio con le opere di Calvino sembra condividerne la prospettiva aperta, l’interesse, cioè, per “l’uomo nei rapporti con ciò che lo circonda, nei suoi cambiamenti senza certezze assolute a cui appoggiarsi, ma legato alla sua responsabilità e libertà, anche a costo di sofferenze” (p. 443). Tuttavia proprio la parabola dell’attività letteraria di Calvino, nota il saggista, contiene un punto di svolta: “egli ha prima combattuto per un’Italia diversa, ha vissuto poi le vane speranze di un suo profondo rinnovamento, non arrendendosi di fronte al loro evidente naufragio e, cercando fuori dall’angusta realtà italiana, nuove risposte, non sempre soddisfacenti” (p. 464-465) ed è alla fine approdato – con i suoi ultimi testi narrativi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il castello dei destini incrociati -  a quelle che F. La Porta ha definito “sapienti macchine combinatorie, narrazioni elegantemente vuote” che dimostrano un solo dato: “non ci sono più storie da raccontare”, ci ricorda Piemontese (465).

Questa constatazione costituisce il presupposto dell’amara tesi del saggio in questione: proprio l’evoluzione della poetica e della riflessione di Calvino ha reso evidente che è venuta meno negli scrittori “la necessità di impegnarsi nel tentativo di mutare le storture della società” (p. 468).

L’addio all’impegno ha una radice ancora più profonda: “lo sviluppo impetuoso dei mass media e l’inarrestabile avanzata del consumismo e delle leggi di mercato hanno portato gli scrittori a perseguire una narrativa più vicina alle richieste del pubblico e alle esigenze di vendita dei lettori” (p. 468).

La fine dell’impegno ha una sua evidente matrice: “conta esclusivamente il mercato”, scrive lapidariamente Piemontese.

E all’intellettuale non resta che accettare la sua condizione degradata “al servizio di istituzioni pubbliche e private” o di “addetto alla cultura come spettacolo” (p. 472). In un panorama di forte saturazione, di trionfo del “già detto”, di inevitabile rinuncia a “scoprir nuovi mondi” (476) - parole di V. Spinazzola che Piemontese non tralascia – non possono che restare frammenti disarticolati incapaci di restituire senso a un mondo naufragato, incenerito.

L’intellettuale dunque, conclude Piemontese, non può che “riutilizzare i reperti del passato per ottenere risultati spettacolari” (p. 476), ma non certo per indicare vie da seguire o fornire messaggi rivelativi. È emblematico il riferimento, al termine del saggio, a Il nome della rosa. Nella pagina conclusiva del romanzo di U. Eco, il protagonista Adso da Melk dichiara inequivocabilmente: “non mi resta che tacere (…). Fa freddo nello scriptorium”.

Così, nel silenzio e nel gelo di un immenso deserto, l’intellettuale dà il suo definitivo addio all’impegno.

 

Angelo Piemontese, Il lungo addio all'impegno,  Genesi editrice, Gennaio 2023, pp.479

venerdì 7 aprile 2023

GIULIANO DA EMPOLI, "IL MAGO DEL CREMLINO"

 LE LEGGI DELLA POLITICA

Il mago del Cremlino (Mondadori, 2022), romanzo con cui Giuliano da Empoli esordisce nella narrativa, è la storia di Vadim Baranov, spin doctor di Putin, figura probabilmente ispirata a Vladislav Surkov.

L’autore traccia una vera e propria anatomia del potere. Attraverso lo sguardo di Baranov, che dal terzo capitolo è di fatto la voce narrante, emergono gli ingredienti fondamentali su cui pare reggersi l’esercizio del potere da parte di Putin (ma forse non solo di Putin). La prima legge è saperafferrare le circostanze”: lo diceva anche Machiavelli, il principe deve saper “riscontrare el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi”. Saper “afferrare le circostanze” corrisponde al principio del “comportarsi secondo l’occasione”, la norma politica precisata da Baltasar Gracián. Ebbene, proprio questo fa Putin: come un predatore sa cogliere il momento da volgere a proprio favore.

La seconda legge è la legge dei bulli, ben esemplificata dal famoso episodio del Labrador che con crudele compiacimento Putin – ricorda efficacemente Giuliano da Empoli - lascia circolare intorno a una Merkel “impietrita e sull’orlo di una crisi di nervi”, cioè in posizione di debolezza per la sua nota fobia dei cani: è “la stessa logica del cortile di scuola”, scrive l’autore, “dove i bulli impongono la loro legge”.

Tuttavia al di là di teorie politiche complesse, che mescolano il lucido calcolo all’impassibile freddezza, Baranov constata che da Ivan il Terribile in poi “la Russia si è sempre fatta così, a colpi di sciabola”: l’essenza del potere, quindi, non è affatto – come potrebbe sembrare a una prima lettura - la “razionalità machiavellica”, l’azione, cioè, anche spregiudicata, ma sempre scelta in nome della Ragion di Stato e che, dunque, non si risolve semplicisticamente in forme di crudeltà fine a se stessa; piuttosto, precisa Baranov, la politica è il teatro in cui si scatenano l’irrazionalità, le passioni, la cattiveria gratuita”. E d’altra parte i recenti fatti in Ucraina lo dimostrano.

Giuliano da Empoli si addentra in maniera profonda nei meandri della realtà politica attraverso ricercati riferimenti culturali, a volte diretti e a tratti, invece, non proprio espliciti. Un punto di partenza sembra essere il poema ideato dal personaggio dostoevskjano Ivan Karamazov, nel quale Il Grande Inquisitore conduce una cinica analisi del concetto di potere e rivolgendosi a Cristo, gli dice: “noi abbiamo rettificato la tua opera e l’abbiamo rifondata sul miracolo, il mistero, l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge”.  Nel Mago del Cremlino Putin interiorizza perfettamente l’amara verità che Dostoevskij riconosce nel bisogno umano di “cercare un essere dinanzi al quale inchinarsi” e perciò elabora quella che Baranov definisce teoria della verticalità: dopo aver descritto un Gorbacev che si fermava a discutere con le persone e uno Eltsin che si presentava come compagno di bevute, Vadim Baranov liquida questa orizzontalità come pericolosa prossimità alla gente da parte di chi esercita il potere. E quindi commenta così: “l’eccesso di orizzontalità ha portato al caos. I Russi nutrono un nuovo desiderio di verticalità, cioè di autorità”.  E per riportare l’ordine in una Russia che rischia di somigliare alla brutta copia di un Occidente iperliberista, edonista, individualista e atomizzato, forse non bastano il bullismo di Stato, la legge del Labrador. Bisogna essere in grado, osserva Baranov, di “osservare gli altri”, le loro angosce, le loro paure. La politica non si riduce “all’amministrazione di un condominio. Ha un solo scopo: dare una risposta ai terrori dell’uomo”. E “la verticale del potere è l’unica risposta soddisfacente”.

Ebbene su queste basi Putin costruisce quella che Giuliano da Empoli definisce la “politica del profondo”, che poi diventa nei fatti una “democrazia sovrana”, espressione ossimorica che descrive una struttura politica perversa: un involucro democratico svuotato di senso che racchiude il cuore autocratico di una dittatura a sfondo nazionalistico e con mire imperialistiche.

 

SCENARI DISTOPICI

Abilmente Giuliano da Empoli tratteggia uno scenario da incubo, dalle sfumature perturbanti. All’inizio del romanzo è esplicito il riferimento a un classico della narrativa distopica, Noi di Evgenij Zamjatin, che descrive una società governata da una razionalità estrema, dove le persone sono identificate con codici alfanumerici e ogni cosa – dal sesso, alle conversazioni per strada, alla politica - è regolata nei minimi dettagli per garantire la massima efficienza del sistema controllato dal cosiddetto “Benefattore”: in questa realtà tutto è trasparente e non c’è bisogno di segretezza perché non c’è nulla di cui vergognarsi, niente da nascondere. Nello Stato Unico descritto da Zamjatin anche le elezioni si svolgono alla luce del giorno. Il protagonista del romanzo Noi dice: io vedo tutti votare per il Benefattore e tutti vedono me votare per il Benefattore, e chiarisce così che il sistema trasparente è in effetti una sorta di Panopticon. Zamjatin intendeva denunciare le regole della dittatura staliniana, ma di fatto ha colto, con molto anticipo sulla storia, le disfunzioni della nostra società, quella algoritmica della sovraesposizione nel web, la società in cui tutti ci sentiamo liberi di esprimerci attraverso i social senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità: l’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti il controllo digitale.

Mark Fisher ha parlato di weird and eerie a proposito della società contemporanea: quella descritta da Zamjatin, quella che Baranov sta contribuendo a creare nella Russia di Putin, hanno in effetti tutti i tratti della distopia, ma uno in particolare: la normalizzazione dell’assurdo che gradualmente entra nelle abitudini. Scriveva a tale proposito Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella: “la normalità significa ciò cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”.

 

CHI SCRIVE NON È IL SUO PERSONAGGIO

Va apprezzata l’audacia di Giuliano da Empoli che affronta temi molto attuali scegliendo al posto della saggistica un romanzo, abbandonando, quindi, la scrittura argomentativa per sperimentare la creatività narrativa. Scrivere un romanzo mobilita emozioni, in chi scrive e in chi legge, è un’esperienza coinvolgente, che però espone anche a un rischio, lo stesso in cui sono incorsi molti grandi della letteratura: il rischio cioè che il pubblico sovrapponga l’autore al personaggio da lui creato e, che, quindi, proceda per sommarie identificazioni tra le idee dell’autore con la vicenda e i pensieri del personaggio. Nel caso di Giuliano da Empoli l’accusa di putinismo (oggi così frequente nei confronti di chi voglia affrontare in modo problematico le questioni relative alla crisi russo-ucraina) sembrerebbe una possibilità per chi si accontenta di letture superficiali. Naturalmente – per fare un esempio - noi sappiamo benissimo che Nabokov non è Humbert Humbert e non si identifica certo con la sua smania di possesso per Lolita. E infatti proprio Nabokov ha precisato nella postfazione al suo romanzo che è infantile studiare un’opera di narrativa per trarne informazioni sull’autore”. Un romanzo, insomma, è un romanzo e come tale va letto. E questo vale anche per Il mago del Cremlino.

 

L’AMORE COME ANTIDOTO

Forse come tributo alla natura romanzesca della vicenda raccontata, nel Mago del Cremlino c’è spazio anche per i sentimenti umani. Alla politica come dimensione oscura, fatta di trame, inganni, violenze, Giuliano da Empoli oppone l’amore. Quello tra Vadim Baranov e Ksenia è un rapporto che attraversa incomprensioni e tradimenti, ma che pure si trasforma in un incontro, rigenerato e reso più maturo dal fatto di aver resistito a molte difficoltà. In un mondo che intorno sembra crollare, si fa strada in Baranov, il Rasputin di Putin, una nuova, profonda esigenza che è all’origine della sua metamorfosi: “ciò che volevo, adesso, era tornare indietro, ristabilire un rapporto con tutto ciò che avevo trovato di bello nel mondo”.

Alla solitudine del potere, alla solitudine di Putin – un uomo senza moglie, senza figli, senza amici – si contrappone la decisione di Vadim Baranov: “è venuto il momento di smettere di voler ricoprire il mondo, ma piuttosto di sceglierne un frammento. E di farlo vivere”.

Si tratta di parole che ricordano il Calvino delle Città invisibili, quando scrive che bisogna cercare ciò che non è inferno e farlo durare, dargli spazio.

L’amore tra Baranov e Ksenia rappresenta l’inaspettata svolta sentimentale di un romanzo ideato per esaminare il cinismo del potere: una scelta precisa, un messaggio rivolto forse alle nuove generazioni che ormai sembrano fagocitate solo da prospettive fosche. L’amore, gli affetti possono definirsi, per usare le parole di Baranov, come “un antidoto negli eventi caotici” dell’esistenza individuale e collettiva, un antidoto necessario, diceva Winston in 1984, a preservare la nostra sostanza umana, quella che Clarisse fa scoprire a Montag in Fahrenheit 451 e che Baranov ritrova grazie a ciò che costruisce con Ksenia. Anche nella realtà più distopica resta un varco aperto alla speranza.

Resta però un fatto: solo il ripiegamento nel privato garantisce la riconquista di sé.

Giuliano da Empoli scrive un romanzo che quanto più esamina le strategie del potere tanto più sembra negare il senso della politica - almeno di quella che il nostro tempo conosce - come realizzazione piena della vita umana e dell’uomo come πολιτικὸν ζῷον.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 5 gennaio 2023

G. ZAGREBELSKY, "LA LEZIONE"

 Nel suo agile saggio, La lezione  (Einaudi – Gli Struzzi, 2022), G. Zagrebelsky ha fornito un’analisi del mondo scolastico senza cedere alla lamentela per tutto quello non va, per le palesi disfunzioni e la caotica disorganizzazione che penalizza gli studenti, ma senza neppure proporre modelli didattici ideali o, peggio, retrotopici e anacronistici. 

Zagrebelsky parte da ciò che è necessario: occorre restituire alla scuola non tanto una teorica centralità – da molti politici sbandierata propagandisticamente e di fatto non realizzata – ma soprattutto la sua originaria dignità culturale.

Due sono le parole-chiave attorno alle quali si concentra l’analisi dell’autore: parola e piacere.

Contro le didattiche semplificanti che marginalizzano il docente riducendone la funzione a quella di mero “facilitatore” e contro le illusorie promesse di metodi ludocentrici e tecnocentrati, l’autore coraggiosamente rilancia la centralità di uno strumento immortale per la sua indiscutibile efficacia: la parola, un mezzo che da Socrate in poi non ha mai deluso.

- La lezione è parola.

 "Senza le parole, la lezione è vuota". Quello di Zagrebelsky non è un retorico elogio della parola, è un’analisi necessaria a ricostruire il legame tra la scuola e la forza generativa della parola.

Che il nesso parola-ascolto abbia nella vita scolastica un ruolo determinante è dimostrato da Zagrebelsky anche attraverso la ricostruzione etimologica del termine che indica il luogo privilegiato in cui la lezione avviene: l’aula. La parola “aula”, sottolinea l’autore, deriva dal greco aulós, flauto, e allude alle onde sonore della musica che si diffondono in uno spazio deputato all’ascolto. Ebbene, la parola avvolge le coscienze, è come l’aria: cultura e scuola non possono farne a meno.

Immagini, input digitali di varia natura possono integrare, accompagnare l’azione d’insegnamento, ma il nesso parola-ascolto non può essere sostituito da nessuna innovazione tecnologica spacciata per avanguardia didattica. Gli uomini e le donne del futuro hanno bisogno di acquisire la consapevolezza necessaria per muoversi nel mondo e "se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non si possono acquisire". Sono infatti le parole che permettono di "pensare il mondo".

Viviamo in un’epoca di forte mistificazione o, addirittura, come ricorda G. Carofiglio, di evidente, orwelliana, "manipolazione delle parole". Perciò la scuola e la lezione hanno un dovere preciso: liberare la parola dal "veleno dell’equivoco". Solo "attraverso la vita e la storia della parola possiamo portare alla luce le esperienze dell’umanità". Zagrebelsky fa riferimento al macabro esperimento messo in atto da Federico II: sottratti alcuni bambini all’affetto delle loro madri, l’imperatore li fece allevare senza la tenerezza delle parole che accudiscono e fanno crescere, limitandosi a farli nutrire da balie. I bambini morirono tutti, perché – è questo che Zagrebelsky vuol dimostrare – la parola è vitale: una vita senza parole è solo mera esistenza (zoé), non esperienza di relazione (bíos). La democrazia, che è relazione continua, infatti, si nutre di parole. I Greci chiamavano agorá lo spazio pubblico atto al confronto e al dialogo politico. L’agorá era il luogo dell’agoréuein, del dire, del parlare per trovare la chiave utile al benessere della vita collettiva. Infatti è solo parlando che ci definiamo. Oggi più che mai, in un momento storico in cui tutti si appropriano, per esempio, di parole come libertà e democrazia, facendosene paladini proprio mentre le negano o ne alterano il senso, bisogna recuperare il rapporto tra le parole e le cose, per evitare il rischio di tenere soltanto nomina nuda.

- La lezione è piacere

Zagrebelsky, poi, mette l’accento su un altro aspetto che dovrebbe connotare la lezione e che è strettamente legato all’uso efficace e sapiente della parola: il piacere. L’autore parte dalla critica esplicita contro i due punti estremi della deriva didattica: da un lato, la pratica riduttiva e semplificante dei test standardizzati, che sembrano pensati per “umiliare l’etica dell’apprendimento”; dall’altro il narcisismo della seduzione intellettuale di docenti che suggestionano con il loro carisma manipolatorio e non grazie al fascino delle materie che insegnano. Zagrebelsky cita, a questo proposito, tra i cattivi maestri, il prof. Keating, il noto trascinatore di studenti nel film L’attimo fuggente, in cui affronta una rivoluzione che finisce per sfuggirgli di mano e che si conclude, per uno dei suoi allievi, in modo disastroso.

Ma, allora, che cos’è una lezione? Zagrebelsky lo spiega attraverso la metafora di P. Florenskij, filosofo e matematico fucilato nel 1937 all’epoca delle purghe staliniane. "La lezione è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, una meta… Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare". Florenskij pone l’accento sul piacere di imparare osservando, guardandosi intorno, parlando, scambiandosi sguardi, idee e opinioni, inoltrandosi in sentieri secondari. È questo il piacere della lezione: il piacere digressivo, il piacere della domanda, la scoperta della complessità delle cose che sfuggono alle gabbie dei programmi prestabiliti, dei tempi programmati, delle scansioni pianificate. La lezione è libertà.

Educare o istruire sono false alternative. La lezione è il piacere di camminare insieme.

- Perché riflettere sul senso della lezione

Con La lezione, Zagrebelsky offre lo spunto per una riflessione sul mondo della scuola in un preciso momento storico come il nostro, che la vede travolta da riforme, circolari ministeriali che confondono invece di chiarire, ordinanze gattopardesche che cambiano tutto per non cambiare niente. Accusata – in molti casi a buon diritto – di perpetuare le disuguaglianze invece di eliminarle e distorta nelle sue finalità – soprattutto se le si attribuisce il compito di premiare il merito senza però far nulla per garantire a tutti gli studenti pari opportunità e omogenee condizioni di partenza rispetto alle quali osservare se ci sia o meno un merito da premiare – annegata tra miriadi di progetti e naufragata nel mare della burocrazia, la scuola oggi non è più un centro culturale.

Separazioni sempre più dicotomiche tra saperi scientifici e discipline umanistiche, reiterati tentativi di svilimento e continui attacchi ideologici diretti contro i saperi definiti “inutili” – perché considerati non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro – celebrazioni neoavanguardisitiche del “nuovo” e di tutto ciò che abbia a che fare con la dimensione tecno-pratica, hanno appiattito la scuola a ente certificatore di mai ben definite “competenze” illusoriamente misurabili attraverso prove ritenute oggettive, sul modello INVALSI.

È vero, il mondo è cambiato e la società si trasforma rapidamente, tuttavia non sempre in meglio. Forse solo la scuola può costituire il baluardo estremo di quella cultura che ci mette di fronte ai nostri limiti e ci ricorda che in fondo "siamo nani sulle spalle di giganti".

La lezione insegna ai nostri giovani proprio questo: a raccogliere (“lezione”, ricorda Zagrebelsky, deriva dal greco lego, che oltre a “parlare” vuol dire appunto “raccogliere”), a selezionare e a scegliere dal passato ciò che può servire a interpretare il presente.

                           Teresa D'Errico 



L. MENEGHELLO, "FIORI ITALIANI": CONTRO LA DISEDUCAZIONE DI STATO

 L. Meneghello apre i suoi Fiori italiani con una domanda: “Che cos’è l’educazione?”. E nella nota introduttiva al libro dichiara: “avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”. Lo sguardo retrospettivo sul mondo scolastico dell’Italia fascista gli aveva saputo chiarire una sola cosa: quello che la scuola non è e, di conseguenza, quello che la società può diventare a causa di una capillare diseducazione.


Chi legge Fiori  italiani non può non rivolgere l’attenzione ai giorni nostri, al lavoro meticoloso e programmato volto a diseducare le nuove generazioni, a impedire loro il libero pensiero, a ingabbiare la prospettiva critica, a trasformare la scuola da luogo di appassionato sapere a centro di addestramento passivo. “Addestramento mentale”, così lo chiama Meneghello. E precisa: “non erano dottrine compiute” quelle che venivano insegnate, bensì “una serie di persuasioni” che i giovani assorbivano anche solo “respirando”. Non è questo ciò che accade anche oggi?

Il bombardamento dei pedagogismi ludocentrici, fondati sulla gamification, sul trasferimento in digitale di ogni aspetto della didattica (esercizi, valutazione, verifiche, comunicazioni), le grandi abbuffate di neoavanguardismi tecnologici non sono forse l’humus entro il quale vengono quotidianamente addestrati reggimenti nazionali di giovani esecutori acritici cui si chiede solo di apporre una X nelle caselle giuste? Non è forse questo il volto della scuola postfascista? Antidemocratici test standardizzati oggi impongono quesiti uguali ad alunni di aree geo-socio-economico-culturali tenute dallo Stato in condizioni molto diseguali: l’apoteosi di una politica che coltiva le disuguaglianze, i divari, i gap, invece di abbatterli, come invece dovrebbe impegnarsi a fare secondo il dettato costituzionale; una condizione che con l’autonomia differenziata – o, come G. Viesti l’ha definita, la secessione dei ricchi – è destinata a peggiorare.

E sorprende che, durante gli anni difficili della pandemia, quando la didattica digitale ha salvato la scuola, ebbene, allora, proprio allora, il supporto tecnologico della DAD sia stato ideologicamente demonizzato da una martellante, svenevole, retorica (che ha fatto da cassa di risonanza del mercatismo che vuole le scuole sempre aperte per garantire la presenza dei genitori-lavoratori nelle aziende): le relazioni bloccate, i sorrisi negati, gli affetti recisi, tutta colpa della DAD.

Ebbene, la disfunzione di una società comincia dalla scuola. E parlarne, scrive Meneghello, significa “salvare” lo scolaro, cioè “rintracciare ciò che vi può essere di salvabile in lui” nonostante questa diseducazione sistematica cui è stato sottoposto.

Il primo atto di questa “operazione di salvataggio” consiste in un cambio di prospettiva: bisogna guardare i giovani in un modo nuovo, assumere, cioè, uno sguardo che potremmo definire floreale. In un’epoca in cui i più piccoli erano i figli della lupa, diventavano poi balilla e venivano infine inquadrati nei Fasci giovanili di combattimento, addestrati alla violenza e alla cieca ubbidienza, L. Meneghello fa dire a un “ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese” la frase più rivoluzionaria della pedagogia e che spiega il titolo del libro: “noi siamo vasi di fiori. Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”. Che la scuola dovesse passare dall’imposizione alla delicatezza e che dovesse formare non sudditi ubbidienti o soldati pronti al sacrificio, ma fiori da far sbocciare, era una rivoluzione linguistica prima di tutto e culturale, poi, in senso lato.

Ora gli studenti certamente non sono più figli della lupa o balilla, ma vengono definiti, con lessico aziendalistico, utenti, portatori di interesse, stakeholder. Anche oggi, dunque, la scuola dovrebbe recuperare la prospettiva floreale suggerita da Meneghello, per insegnare ai giovani a fiorire, a irradiare bellezza nel mondo ferito in cui stanno per entrare.

Il romanzo di L. Meneghello si può dividere in due parti: nella prima sezione prevale una serrata denuncia da parte del protagonista S., di quella che potremmo chiamare la diseducazione di Stato e dei suoi fondamenti:

–       distacco della scuola dalla vita e dalla realtà: “una specie di settore separato con leggi e caratteristiche proprie”;

–       classificazione su scala numerica degli studenti secondo categorie naturali: “i bravi, i normali, gli scarsi”;

–       trasmissione di una cultura “esposta come la Sindone”, una cultura” che non c’entra con la gente” e che è” come la Grazia, che non ha una dimensione sociale”;

–       organizzazione di un sistema con i suoi “riti inquistori o giudiziari”, i suoi “skills specializzati” come per esempio quello di “destreggiarsi tra i due colori dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale … una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale)”;

–       distacco tra le parole e le cose: “le cose erano cose-parole, non cose-cose”;

–       il docente degradato a “baby sitter intellettuale” o a semplice “pastore”, nel senso che “pasturava i giovani e loro facevano bèee bèee”: una figura orientata più “a smorzare che ad accendere”;

–       ripetizione ciclica degli stessi contenuti, sempre uguali, al massimo presentati “sotto altri angoli visuali”.

Non mancano, certo, nel testo ricordi di insegnanti capaci di suscitare interesse, quelli che, come diceva Dante, ti insegnano come l’uomo si eterna. Però, si corregge subito Meneghello, questi “non possono, non sanno, insegnarti altro”: forse, sembra sottintendere l’autore, i giovani prima di eternarsi, dovrebbero imparare ad affrontare il presente, e l’urto è forte.

Il ritratto finale è il profilo di una scuola vuota e senza idee. “Idee importanti oggi non ce n’è”: è questa l’amara constatazione di Meneghello. E in una scuola così “si potevano insegnare solo cosucce, cos’è uno hysteron-proteron, la struttura delle graminacee”. In definitiva, una scuola inutile: “qualche correlazione tra imparare e vivere si asseriva a parole che esiste, ma di fatto nessuno se ne dava pensiero”.

Appare a questo punto superfluo commentare l’affinità tra la diseducazione di Stato subita dai giovani durante il Ventennio e quella in atto in questo ultimo ventennio dominato dalla trionfante triade morattiana: Inglese, Informatica, Impresa, che ha sostituito quella tetra, più antica, del “credere, obbedire, combattere”.

I Fiori italiani dimostrano che negli anni del fascismo quello che i ragazzi apprendevano, lo imparavano fuori dalla scuola. Il modello di un’educazione costruttiva è incarnato nel libro di Meneghello da Antonio Giuriolo, il maestro-partigiano il cui esempio ha avuto la forza demiurgica di “fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne”, dimostrando con il suo esempio vivente che la cultura è “il principio informante del carattere” e la libertà “l’alimento stesso della vita intellettuale e morale”.

E, naturalmente, è tutta questione di metodo: sull’esempio del maestro Giuriolo, L. Meneghello elabora una didattica che se fosse applicata oggi restituirebbe seriamente alla scuola quella dignità tanto propagandata dagli stessi politici che gliel’hanno tolta.

Pochi, illuminanti, tratti:

–       metodo maieutico, il valore della domanda: nel dialogo con il giovane protagonista S. “Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità e lui sentiva la forza frenante di queste domande, il giudizio che vi era implicito”;

–       informalità: “era proprio questa la forza del suo insegnamento, non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma”;

–       concretezza: “Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa, questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando) brani segnati a matita, sottolineati…gli veniva spontaneo richiamarsi a punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato;

–       capacità di cogliere e comunicare “l’interesse intrinseco delle cose”: negli argomenti che affrontava “c’era la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo e interesse intrinseco dell’argomento”;

–       un’esposizione guidata dal “discorso lucido della ragione” capace di trasmettere “un senso di suprema pacatezza” e di “calma sovrana”.

Nei ricordi dell’amico-discepolo S., Antonio Giuriolo è “l’insegnante”, colui che cioè lascia un segno nella vita dei suoi allievi: “l’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere”.

L. Meneghello, Fiori italiani, BUR, 2022