mercoledì 8 dicembre 2021

IL DANNO SCOLASTICO

 

Accade spesso che il dibattito sul valore di un libro sia fortemente influenzato da condizionamenti ideologico-politici che privano la discussione di quell’onestà intellettuale, di quella serenità di giudizio necessarie a cogliere del libro il suo significato di fondo e lo spirito che lo anima. Certo, nessuno è completamente immune da personali orientamenti nei criteri di valutazione che adotta, tuttavia sembra opportuno lasciare spazio a letture e a interpretazioni il più possibile obiettive. 


“Il danno scolastico” è uno di quei saggi profondamente divisivi: un forte pregiudizio sul presunto conservatorismo degli autori ha caratterizzato le recensioni finora pubblicate (cfr. Vanessa Roghi e Christian Raimo, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola-democratica-ovvero-il-danno-che-provocano-le-confuse-opinioni-di-luca-ricolfi-e-paola-mastrocola/ e Vincenzo Sorella, https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico).

Si tratta di critiche provenienti da un mondo che si autodefinisce di sinistra, espressione di una pseudosinistra neoliberista che da decenni ha in effetti snaturato la scuola, allontanandola dalla sua antica vocazione culturale, per curvarla verso orizzonti sempre più marcatamente aziendalistici e economicistici di cui, peraltro, viene goffamente mimato il linguaggio.

Da lettrice e docente, del saggio di Mastrocola e Ricolfi apprezzo la chiarezza espositiva e l’appassionata difesa di un’idea alta della scuola come ultimo baluardo di resistenza contro attacchi – ipocritamente chiamati “riforme” - che da anni la stanno impoverendo e destrutturando. Con una pericolosa operazione di manipolazione del linguaggio – in atto, a dire il vero, in diversi campi, come ha recentemente ribadito G. Carofiglio nel suo recente “La nuova manomissione delle parole” – si dichiara propagandisticamente di voler mettere la scuola “al centro”, ma nei fatti le si sottrae sempre più calibro, valore, spessore: si riempie il tempo scolastico di tutto (progetti, gite, orientamenti universitari, alternanza scuola-lavoro, incontri con esperti di vario genere, test Invalsi), si svuota la vita scolastica di senso. È chiaramente un disegno preciso: si chiama “ampliamento dell’offerta formativa”, ma l’unica cosa che si dovrebbe ampliare – l’orizzonte culturale – resta annebbiato. Non c’è tempo per imparare. Per ora è così e bisogna ammetterlo, con buona pace dei difensori della scuola “progressista”, se per progressismo costoro intendono la costante distrazione da quello che dovrebbe essere l’aspetto prioritario della scuola: la cultura.

Bisogna essere chiari: la scuola oggi offre davvero poco. Nel tempo residuale – tra una videoconferenza con esperti chiamati per fornire delucidazioni sulle possibili scelte universitarie che il territorio offre, e una videolezione sulla piattaforma per l’alternanza scuola-lavoro, che riguardo al lavoro non presenta niente e si riduce a una noiosissima lezione frontale che gli studenti sono costretti a seguire per mero adempimento burocratico – ebbene, nel tempo che resta, si fa solo quel che si può: poco.

E se Mastrocola e Ricolfi denunciano questo deficit di spessore della scuola pubblica, se cioè denunciano il falso progressismo della scuola pubblica che si è tradotto solo in un abbassamento vertiginoso dell’offerta culturale, non sbagliano. A ciò si aggiunga anche la pessima selezione dei docenti, immessi nei ruoli attraverso concorsi facilitati: si capirà perfettamente che agli studenti lo Stato davvero non fornisce le lenti necessarie a decodificare il mondo, la realtà, la storia, la complessità. Ne deriva, ovviamente, che poi abbandonano lo studio, non si iscrivono all’università. La scuola non li prepara abbastanza. Gli autori del saggio “Il danno scolastico” questo dicono: la scuola oggi non prepara. È vero, è sotto gli occhi di tutti, è un dato confermato: all’ultimo concorso in magistratura (luglio 2021) il 94% dei candidati è stato bocciato (https://www.ilsussidiario.net/news/magistrati-concorso-flop-94-bocciati-scrivono-male-allarme-servono-800-idonei/2260936/): gente laureata che ha lacune nell’italiano scritto, nella formulazione scritta del proprio pensiero, costituisce un risultato allarmante. E non è soltanto questione di grammatica, è un problema più profondo che investe la capacità di formularli, i pensieri, di dipanare il groviglio che li intrappola e che impedisce di tradurli in parole. Un problema serio, non solo linguistico: tredici anni di scuola e cinque di studi universitari evidentemente non risultano sufficienti a dotare le persone delle competenze comunicative necessarie a superare un concorso pubblico.

E quale sarebbe la colpa di Mastrocola e Ricolfi? Aver denunciato l’ovvio? Deideologizziamo il dibattito e riconosciamo obiettivamente le falle del sistema scolastico italiano, ammettiamo la colpa più grave della scuola: aver smesso di insegnare in nome di un’ipocrita idea di “inclusività” che garantisca a tutti il “successo formativo”. L’inclusione è un principio sacrosanto (soprattutto se a giovarne sono tutti gli alunni BES, i più bisognosi di attenzione e cura), giustissimo è pure l’impegno ad assicurare agli studenti la piena realizzazione di sé, ma tutto questo non può e non deve essere l’alibi per l’abbassamento degli obiettivi culturali come quello che oggi i giovani stanno subendo. Lo ha spiegato bene A. D’Avenia (https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/21_novembre_14/altezza-quadri-bee501f4-458c-11ec-9904-ef3b86729896.shtml): un buon educatore non appende il quadro all’altezza del bambino – deturpando una casa – ma lo appende dove è giusto, dove sta bene, e insegna al bambino a usare la sedia per sollevarsi e guardarlo dal punto di vista più adeguato. E invece oggi la scuola ha scelto la via più facile, ha abbassato gli obiettivi. Così, però, non insegna più, tarpa le ali e i sogni. E non è giusto, Don Milani avrebbe disprezzato questo tipo di scuola che lascia indietro proprio chi pretenderebbe di includere: se per includere smetto di insegnare, finisco con l’escludere. Depoliticizziamo l’analisi: chi può davvero dire di essere soddisfatto da questo sistema di istruzione?

La scuola non riesce più a insegnare. E le speranze riposte nel digitale, nelle avanguardie didattiche e nelle seduzioni della gamification si sono rivelate false illusioni, se non errori: gli studenti saranno anche bravissimi a svolgere un questionario Kahoot, ma quando scrivono un tema sono in difficoltà. Da anni chi insegna lo constata. Il cammino è sempre da ricominciare…

P. Mastrocola- L. Ricolfi, "Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza", La nave di Teseo.

domenica 17 ottobre 2021

NON HO PIÙ ARMI - POESIA INEDITA DI TONIO CAIONE


 

Non ho più armi

 

Non ho più armi,

Amica mia.

Sono senza difese,

e non ho scudiero che m’assista.

 

Questo settantaduesimo gennaio

è più freddo di sempre,

e non ho vesti per coprirmi;

neanche un alito –

né di madre, né di sposa.

 

Non parole,

né suoni o giochi di bimbi –

 

Tu sola, Amica lontana,

puoi ancora donarmi parole:

il silenzio mi inchioda.

 

Gennaio 2017

 

 

   Scegliere il tema del desiderio è una delle sfide più ardue che un poeta possa affrontare: il rischio di cadere nella banalità è alto, il pericolo di ripetere topoi abusati è forte, la possibilità di scoprire troppo apertamente la propria interiorità diventa quasi una certezza.

   Eppure il dovere dell’originalità il più delle volte delude e copre di una patina d’artefazione la sincerità che i lettori si aspettano e che, in fondo, ognuno di noi cerca nei rapporti umani. Saba definiva la sincerità dei versi poesia onesta e condannava lo sfrenato desiderio di originalità, quello di chi non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto.

In questo consiste la grandezza di alcuni componimenti. Non ho più armi riesce a trasmettere ciò che tutti provano e trova conferma della sua onestà in quello che anche gli altri poeti hanno detto: noi viviamo di desiderio.

   Ciò che voglio mi è negato, scriveva Jaufré Rudel nella sua nota canzone che celebra l’amore di lontano. È una verità antica. E che il desiderio si nutra di assenza, di mancanza, lo suggerisce la sua radice etimologica: dal latino deesse, “mancare” o dalla locuzione de sideribus, “dalle stelle”, espressione che fa riferimento a quella luce, a quel lampo di felicità, che ci manca e che vorremmo brillasse nelle nostre vite. E che noi siamo sostanza desiderante non ce lo dice solo la più alta tradizione lirica, che ha avuto in Petrarca la sua massima espressione. Potremmo sperimentarlo ogni giorno, ma forse non sappiamo più prestare attenzione alle emozioni. La poesia di Antonio Caione che ruota tutta intorno alla forza del desiderio, all’urgenza dell’incontro e alla sua impossibilità di realizzazione, ci costringe a fare i conti con l’anestesia emotiva del nostro tempo.

Oggi la forza del desiderio sembra essersi esaurita, pochi ne avvertono l’intensità. Immersi in un mondo sempre più vorticoso, siamo attori di un eros vissuto distrattamente, velocemente e troppo facilmente. L’imperativo consumistico sintetizzato da Freddy Mercury nell’epocale I want it all, I want it now, “voglio tutto e subito”, ha spinto intere generazioni ad azzerare il desiderio e a sostituirlo con la rapida soddisfazione e l’aproblematica rottamazione. Zygmunt Bauman definiva queste esperienze a basso tasso d’investimento sentimentale, “amori liquidi”, fragili, che nascono sui social e lì finiscono con brevi post di addio. Senza crucci e, al massimo, con le lacrime di un solo momento, i consumatori seriali di rapporti senz’anima sono pronti alla sostituzione del vecchio con il nuovo oggetto di consumo erotico.

Tonio Caione, invece, recupera dalla migliore tradizione lirica le componenti fondamentali di un eros degno di questo nome: la lontananza dell’amante e la tristezza per l’inappagamento del desiderio. Il senso profondo della frustrazione è testimoniato nel testo di Caione, dalla martellante ripetizione della negazione non, neanche, né che sembra condannare il soggetto lirico alla privazione di ogni concreta possibilità di incontro. D’altra parte, domina la dimensione totalizzante dell’eros rispetto al quale chi ama è sempre in condizione di inferiorità, come un guerriero disarmato, metafora cui il titolo del componimento allude e che restituisce attualità a suggestioni tradizionali. Chi ama è esposto ai colpi di un dio, Eros, che possiede con prepotenza e al quale è inutile opporre resistenza.

A costituire, però, la vera forza dei versi di Tonio Caione è l’accento posto sulla sfumatura più intensa dell’amore, un dono di parole: tu sola, Amica lontana,/puoi ancora donarmi parole.

Viviamo nell’era della comunicazione, ma non sappiamo comunicare, dimentichiamo che “fare” l’amore è prima di tutto “parlare” d’amore. Comunicare è un verbo che nasce dall’idea del condividere le emozioni attraverso la parola, lo dimostra chiaramente la derivazione latina del termine, cum (“insieme, con”) e munus (“dono”): comunicare è la capacità di donarsi attraverso la parola, abbattendo i muri che separano.

Noi, al contrario, nonostante l’illusione di entrare in contatto attraverso i social, viviamo in un’epoca di incomunicabilità profonda: siamo come Gli amanti di Magritte, separati da un drappo bianco che copre i volti e impedisce l’intimità facendo da barriera divisiva. Siamo incapaci di guardarci, di parlarci. E a questo punto comprendiamo quanto peso abbia l’amarezza del silenzio: il silenzio mi inchioda, scrive Tonio Caione. Ferisce l’afasia di chi non vuole, non sa comunicare. Sarà per incapacità, oppure per scelta, forse per timore, poco importa: il silenzio inchioda ognuno alla propria solitudine.

 Non ho più armi è una poesia che scava nel cuore e scopre la verità che giace al fondo, per usare ancora le parole di Saba.

L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda, scriveva Montale interrogandosi sui destini della poesia e sulla sua possibile sopravvivenza nella società dei robot.

Non ho più armi è un esempio di poesia onesta, la sola che possa resistere agli imperativi del mercato, alla competizione della tecnologia, alla degradazione di contenuti e forme imposta dal gusto di massa. Non ho più armi dice la verità sull’essere umano: siamo fatti di desiderio, che si nutre di assenze.

 E la tua assenza so quel che mi dice,

la tua assenza che tumultuava

nel vuoto che hai lasciato,

come una stella. 

(Vincenzo Cardarelli)