domenica 17 ottobre 2021

NON HO PIÙ ARMI - POESIA INEDITA DI TONIO CAIONE


 

Non ho più armi

 

Non ho più armi,

Amica mia.

Sono senza difese,

e non ho scudiero che m’assista.

 

Questo settantaduesimo gennaio

è più freddo di sempre,

e non ho vesti per coprirmi;

neanche un alito –

né di madre, né di sposa.

 

Non parole,

né suoni o giochi di bimbi –

 

Tu sola, Amica lontana,

puoi ancora donarmi parole:

il silenzio mi inchioda.

 

Gennaio 2017

 

 

   Scegliere il tema del desiderio è una delle sfide più ardue che un poeta possa affrontare: il rischio di cadere nella banalità è alto, il pericolo di ripetere topoi abusati è forte, la possibilità di scoprire troppo apertamente la propria interiorità diventa quasi una certezza.

   Eppure il dovere dell’originalità il più delle volte delude e copre di una patina d’artefazione la sincerità che i lettori si aspettano e che, in fondo, ognuno di noi cerca nei rapporti umani. Saba definiva la sincerità dei versi poesia onesta e condannava lo sfrenato desiderio di originalità, quello di chi non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto.

In questo consiste la grandezza di alcuni componimenti. Non ho più armi riesce a trasmettere ciò che tutti provano e trova conferma della sua onestà in quello che anche gli altri poeti hanno detto: noi viviamo di desiderio.

   Ciò che voglio mi è negato, scriveva Jaufré Rudel nella sua nota canzone che celebra l’amore di lontano. È una verità antica. E che il desiderio si nutra di assenza, di mancanza, lo suggerisce la sua radice etimologica: dal latino deesse, “mancare” o dalla locuzione de sideribus, “dalle stelle”, espressione che fa riferimento a quella luce, a quel lampo di felicità, che ci manca e che vorremmo brillasse nelle nostre vite. E che noi siamo sostanza desiderante non ce lo dice solo la più alta tradizione lirica, che ha avuto in Petrarca la sua massima espressione. Potremmo sperimentarlo ogni giorno, ma forse non sappiamo più prestare attenzione alle emozioni. La poesia di Antonio Caione che ruota tutta intorno alla forza del desiderio, all’urgenza dell’incontro e alla sua impossibilità di realizzazione, ci costringe a fare i conti con l’anestesia emotiva del nostro tempo.

Oggi la forza del desiderio sembra essersi esaurita, pochi ne avvertono l’intensità. Immersi in un mondo sempre più vorticoso, siamo attori di un eros vissuto distrattamente, velocemente e troppo facilmente. L’imperativo consumistico sintetizzato da Freddy Mercury nell’epocale I want it all, I want it now, “voglio tutto e subito”, ha spinto intere generazioni ad azzerare il desiderio e a sostituirlo con la rapida soddisfazione e l’aproblematica rottamazione. Zygmunt Bauman definiva queste esperienze a basso tasso d’investimento sentimentale, “amori liquidi”, fragili, che nascono sui social e lì finiscono con brevi post di addio. Senza crucci e, al massimo, con le lacrime di un solo momento, i consumatori seriali di rapporti senz’anima sono pronti alla sostituzione del vecchio con il nuovo oggetto di consumo erotico.

Tonio Caione, invece, recupera dalla migliore tradizione lirica le componenti fondamentali di un eros degno di questo nome: la lontananza dell’amante e la tristezza per l’inappagamento del desiderio. Il senso profondo della frustrazione è testimoniato nel testo di Caione, dalla martellante ripetizione della negazione non, neanche, né che sembra condannare il soggetto lirico alla privazione di ogni concreta possibilità di incontro. D’altra parte, domina la dimensione totalizzante dell’eros rispetto al quale chi ama è sempre in condizione di inferiorità, come un guerriero disarmato, metafora cui il titolo del componimento allude e che restituisce attualità a suggestioni tradizionali. Chi ama è esposto ai colpi di un dio, Eros, che possiede con prepotenza e al quale è inutile opporre resistenza.

A costituire, però, la vera forza dei versi di Tonio Caione è l’accento posto sulla sfumatura più intensa dell’amore, un dono di parole: tu sola, Amica lontana,/puoi ancora donarmi parole.

Viviamo nell’era della comunicazione, ma non sappiamo comunicare, dimentichiamo che “fare” l’amore è prima di tutto “parlare” d’amore. Comunicare è un verbo che nasce dall’idea del condividere le emozioni attraverso la parola, lo dimostra chiaramente la derivazione latina del termine, cum (“insieme, con”) e munus (“dono”): comunicare è la capacità di donarsi attraverso la parola, abbattendo i muri che separano.

Noi, al contrario, nonostante l’illusione di entrare in contatto attraverso i social, viviamo in un’epoca di incomunicabilità profonda: siamo come Gli amanti di Magritte, separati da un drappo bianco che copre i volti e impedisce l’intimità facendo da barriera divisiva. Siamo incapaci di guardarci, di parlarci. E a questo punto comprendiamo quanto peso abbia l’amarezza del silenzio: il silenzio mi inchioda, scrive Tonio Caione. Ferisce l’afasia di chi non vuole, non sa comunicare. Sarà per incapacità, oppure per scelta, forse per timore, poco importa: il silenzio inchioda ognuno alla propria solitudine.

 Non ho più armi è una poesia che scava nel cuore e scopre la verità che giace al fondo, per usare ancora le parole di Saba.

L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda, scriveva Montale interrogandosi sui destini della poesia e sulla sua possibile sopravvivenza nella società dei robot.

Non ho più armi è un esempio di poesia onesta, la sola che possa resistere agli imperativi del mercato, alla competizione della tecnologia, alla degradazione di contenuti e forme imposta dal gusto di massa. Non ho più armi dice la verità sull’essere umano: siamo fatti di desiderio, che si nutre di assenze.

 E la tua assenza so quel che mi dice,

la tua assenza che tumultuava

nel vuoto che hai lasciato,

come una stella. 

(Vincenzo Cardarelli)