domenica 6 dicembre 2020

IL DONO DI ANTONIA

 Il corpo di una donna è progettato per procreare e dare la vita: ma perché per secoli la biologia ha condizionato le scelte del soggetto femminile relegandolo al solo ruolo di madre? Un figlio è di chi lo mette al mondo o di chi lo ama, lo alleva, lo educa? L’istinto materno è davvero un istinto? Il rifiuto della figura materna è alla base di sofferenze e psicosi che tormentano la vita oppure  questo nesso causale è l’ennesimo addebito fatto alle donne da parte di una cultura androcratica capace solo di attribuire responsabilità, oneri, colpe alla figura femminile?

Alessandra Sarchi pone quesiti che mettono in crisi, destrutturano immaginario e tradizione. Il dono di Antonia è la storia di una donna che in gioventù ha donato un ovulo a un’amica californiana per consentirle di realizzare il suo desiderio di maternità. Poi, però, ha troncato ogni rapporto con l’amica, ha avuto paura del suo stesso slancio, della sua generosità.

Ecco, il fulcro del romanzo di Alessandra Sarchi è questo. La riflessione sul senso della maternità è l’espediente, il pretesto narrativo per avviare una seria analisi sul concetto di dono, spingendolo fino all’esame di quello che è più difficile da donare: la vita, l’idea della vita, la possibilità di dare la vita.

Antonia non esita a mostrare il suo affetto a Myrtha: offre il suo ovulo e crede che la felicità dell’amica sia condizione sufficiente per realizzare anche la propria felicità. Poi, a poco a poco cominciano i dubbi, le paure e i tentativi di autoconvincersi che, sì, la generosità è sempre la cosa giusta: si dona il sangue, dunque si può donare anche un ovulo; poi, noi donne di ovuli ne abbiamo tanti…ne doni uno, altri saranno fecondati. Sì, la generosità è la cosa giusta: questo si ripete Antonia. C’è però una domanda fatale, per la quale non esiste risposta immediata: si è sempre all’altezza della propria generosità? Quale prezzo siamo disposti a pagare per quella che consideriamo generosità? È vera generosità quella di Antonia? Il dubbio che la tormenta è proprio questo: a inquinare l’idea di generosità ci sono due fattori. Il primo, umanissimo, è il rimpianto legato al desiderio comprensibile di conoscere poi la vita che crescerà a partire da quell’ovulo donato: per questo Antonia tronca ogni rapporto con Myrtha, per non affrontare la possibilità di voler vedere il bambino che da quell’ovulo donato, nascerà: avevo paura di vederti, di vedere qualcosa che non sarebbe stato mio …Non volevo sciupare il mio dono con la gelosia

Il secondo aspetto che tormenta Antonia è un dubbio atroce, perché sfalda l’idea stessa di generosità: si possono davvero considerare interscambiabili un ovulo e l’idea di vita che porta dentro? Quando Jessie, il giovane uomo che da quell’ovulo ha avuto vita, arriva in Italia e cerca Antonia, lei vive un’epifania, una rivelazione. No, la vita non è interscambiabile, è unica. E in quella unicità c’è un destino, un percorso fatto di scelte, gioie e dolori che ad Antonia non appartengono, ma che la mettono di fronte ai propri errori, alle proprie fragilità. Essere la madre di Anna non compensa l’atto mancato di Antonia che avrebbe potuto essere la madre di Jessie, ma ha scelto di non esserlo. Inizia un percorso di autoindagine, fatto di domande e sensi di colpa che la ragione da sola non dissolve. Il passato lontano, ma mai rimosso, diventa quasi un’ombra persecutoria: è col passato che bisogna aver a che fare, con la memoria custodita e con quella rinnegata.

Sin dall’inizio del romanzo si afferma questa certezza: la cosa sulla quale si ha meno controllo è il passato, e la memoria, e nel passato può esserci tutto.

Sarchi tocca un punto nevralgico del nostro sentirci moralmente nobili: può definirsi generosità il bisogno di misurarsi? Volevo provare a me stessa di valere qualcosa: Antonia dona, ma alla base del suo gesto c’è l’io. È l’esigenza di “centrarsi” a determinare la sua scelta: provavo un sentimento di inappartenenza che tendeva all’ostilità. È la triste consapevolezza di una vita in cui c’era tutto, fuorché un obiettivo a originare la sua decisione. Ma alla fine l’atto di donare non la tranquillizza, anzi dal momento in cui si offre inizia il suo tormento: sentire di aver oltrepassato un limite e non sapere più esattamente quale sia il proprio posto. Ci si può costruire una vita, intorno a una vergogna così.

Il dono di Antonia, forse, allora, non è quello che lei fa a Myrtha. Il vero dono è quello che Antonia riceve da Myrtha. È Myrtha che dona ad Antonia una felicità possibile, la bellezza di essere cercata e amata nonostante le fughe e le chiusure. Myrtha ha pochi anni davanti a sé, è malata, svela a Jessie, il figlio che ha allevato e amato, la verità sulla sua nascita dall’ovulo donato da Antonia. E come in una Telemachia Jessie cerca l’altra madre, Antonia, quella naturale. Il loro incontro è intenso: i due si riconoscono. Jessie non giudica. Madre e figlio parlano, bevono un succo alla menta. Tonano a casa. Un nostos antico.

Il dono di Antonia è quello ricevuto da Myrtha, che ha capito e non ha condannato la fuga della sua amica italiana, ha custodito la felicità che grazie a lei ha raggiunto: e, pensando a Myrtha, Antonia ammette che ancora una volta la sua amica le ha aperto la strada, l’ha messa nelle condizioni di essere una donna diversa.

Il dono di Antonia è quello che riceve da Jessie, che con la sua tenacia nel cercare, con la sua capacità di aprirsi all’ignoto, di rischiare un rifiuto da parte della donna che non ha mai voluto conoscerlo, ha mostrato ad Antonia la parte più bella delle relazioni umane, la fiducia, la capacità di guardare oltre i giudizi e le valutazioni razionali e ha dato spessore – con pochi, ma forti, strumenti, l’ascolto e la parola – a un legame che fino ad ora è stato solo naturale, biologico, di fatto inesistente.

Jessie ora c’è, esiste.  Non è più “il passato”. Non c’è molto da ragionare sui “perchè” della vita.

Il dono di Antonia è quello che lei riceve, quando meno se lo aspetta: l’incontro che scompagina gli schemi, la dissoluzione dei sensi di colpa, la liberazione dai segreti opprimenti del passato, la matura comprensione del fatto che quello che ci salva, ogni giorno, sono i sentimenti, non la ragione né la natura. I sentimenti. Quelli che servono a colmare i buchi e la distanza. I sentimenti.

ALESSANDRA SARCHI, IL DONO DI ANTONIA, Einaudi

sabato 25 luglio 2020

RIFLESSI SULL'ANIMA

Riflessi sull’anima è un titolo insolito, lirico, per una biografia. Fotografa subito l’accurato e paziente lavoro di ricostruzione che Angelo Piemontese ha condotto per restituire ai lettori il profilo – umano e intellettuale – di uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana del Novecento: Cesare Pavese.

Il sottotitolo – “Incontro-scontro di Cesare Pavese col suo tempo” – chiarisce gli intenti del volume di Angelo Piemontese, garganico, docente di Lettere ed esperto di narrativa contemporanea: esaminare il complesso rapporto di Pavese con la storia, la società, la cultura, l’ambiente letterario con cui entrò in contatto e scoprire i “riflessi”, appunto, che si sono riverberati sull’anima dello scrittore: l'appassionato biografo spiega, infatti, che “nella sua intima disperazione” Pavese “ha portato riflesso il senso più profondo degli anni vissuti, non adeguandosi mai alla mentalità e alla cultura correnti, ma schierandosi costantemente contro, seppure senza urla o manifestazioni sopra le righe, sorretto sempre dal senso della misura”.

I primi segnali della sua voce “contro” - nota Piemontese -  sono la tesi su Whitman e poi la traduzione in italiano di Moby Dick: studiare e proporre al grande pubblico testi e traduzioni di autori statunitensi nonostante “l’ostracismo fascista”, si connota subito come un gesto dirompente. Presto questa insofferenza al clima autarchico e asfittico del Ventennio si traduce in esplicito rifiuto del modello di vita fascista: arroganza, arditismo, azione a tutti i costi, retorica del “me ne frego”, del “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, il sentimento di una patria immaginaria, scrive Pavese, sono gli spasmi di un potere e di una civiltà pronti ad implodere e che non hanno alcuna corrispondenza con la vita reale.

Coraggiosamente - mette in luce Piemontese - lo scrittore di Santo Stefano Belbo prende le distanze dagli intellettuali crociani o rondisti che fanno del classicismo la nicchia in cui difendere la propria neutralità, un rifugio, una turris eburnea. Parlare di letteratura americana nell'Italia fascista è proibito: equivale a parlare di democrazia, a tastare un terreno nuovo, immune dal nefasto mito del superuomo che, lanciato da D’Annunzio – sulla base di suggestioni nietzschiane – si era poi incarnato in Mussolini. A Pavese, invece, la letteratura americana suggerisce modelli di vita sani, autentici, ritratti di uomini nuovi, operai, disoccupati, ragazzi, riflessi dell’uomo universale che può essere capito da tutti e che trova realizzazione in personaggi come Talino di Paesi tuoi o Anguilla, il protagonista del romanzo maturo La luna e i falò.

Dunque, nonostante le frequenti professioni di “apoliticità” letteraria - certamente conseguenza dell'affinità di pensiero con Vittorini -  Piemontese nota che in Pavese si fa strada il profilo dello scrittore impegnato: non esiste l’arte per l’arte. E persino la più oziosa lirica parnassiana risolverà per il lettore un problema della pratica: come vivere sognando, annota nei suoi scritti lo scrittore delle Langhe. È questo il distacco dal senso crociano dell’arte come “intuizione pura”. E la vicinanza alla vita, alla società e alle sua fasce deboli determinerà l'accostamento di Pavese al PCI, dopo il ’45. L’interesse dello scrittore per la realtà concreta lo porta a cogliere l’opposizione netta tra una borghesia fatua, vuota e il mondo dei lavoratori, operai, contadini. E Pavese, sempre più immerso nel clima che presto darà vita al Neorealismo, non si rivolge alla scrittura in modo ideologico, ma si serve di immagini tratte dalla quotidianità, dalla storia.

Piemontese nota, poi, che nelle opere pavesiane si attua parallelamente un processo di ricerca sulla lingua, che lo scrittore delle Langhe cerca di rendere sempre meno letteraria, più comunicativa, modellata sul parlato, diretta, “antinovecentista”, direbbe Pasolini, lontana sia da forme di chiusura ermetica sia dagli sperimentalismi gaddiani.

L’analisi condotta da Piemontese dimostra che la prospettiva di Pavese si amplia sempre di più. Non basta interessarsi ai problemi sociali, non è sufficiente andare verso il popolo: l’obiettivo è rompere la solitudine dell’uomo, favorire attraverso la letteratura l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Per Pavese lo scopo della letteratura è “cogliere l’uomo”, nota il saggista garganico. In questo percorso lo appoggia Bianca Garufi, donna colta, dai vasti interessi e dalla passione per la psicanalisi, con cui Pavese condivide la suggestione degli studi etnologici e del mito: è questo il momento in cui lo scrittore si dedica ai Dialoghi con Leucò, una reinterpretazione del mito classico – riletto con accenti e sfumature che potremmo quasi definire postmoderni –  che dà voce a una visione simbolica della realtà contemporanea.

L’attenzione di Piemontese si rivolge anche allo stile di Pavese: la sua scrittura non è una semplice narrazione di fatti, un intreccio di vicende. Pavese insiste su tematiche ricorrenti e confessa infatti che ogni vero scrittore è splendidamente monotono, perché raccontare è monotono. Lo aveva detto anche Saba parlando di Petrarca, notando che la sua grande poesia si era sviluppata interamente attorno all’idea ricorrente, ossessiva, del suo infelice e irrealizzato amore per Laura. E l’arte non ha paura di ripetersi. Quella che cerca l’originalità immaginifica ad ogni costo lascia dubbi sul suo valore.

L’amore – osserva ancora Piemontese - è  un’altra componente fondamentale della esperienza umana e letteraria di Pavese, come scrive in una lettera del '32, sottolineandone l'incontrollabile forza: l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti.

Travolgente, per esempio, è il noto legame con l’attrice americana Constance Dowling, che si conclude con un’esperienza fallimentare, una crisi profonda. Con meticolosa attenzione, il biografo ricorda che Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annota: non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela la nostra nudità, miseria, inermità, nulla. Lui cerca di convincersi, lo scrive a Constance, che t’was only a flirt (è stato solo un flirt, una storia), ma si susseguono nel suo cuore sentimenti contrastanti, rassegnazione e speranza, strette al cuore, la sempre più pressante tentazione del suicidio: il gesto – il gesto - non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma, stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. Una battuta finale. L’amore per Constance si rivela una storia sbagliata, Pavese non riesce a vedere la reale natura della donna e lei non comprende il calibro culturale di Cesare, al punto che alla sua morte - osserva con ironia Piemontese - avrebbe esclamato stupita: non sapevo che fosse uno scrittore così famoso!

Il 27 agosto 1950 Pavese perde la sua battaglia contro il vizio assurdo, cede alla tentazione suicida, in lui prende il sopravvento l’impulso all’autoannientamento. Ripeness is all aveva scritto – citando il Re Lear, in epigrafe a La luna e i falò - ma la maturità irraggiungibile condanna al peso insostenibile dell’incompiutezza.

 La disperata ricerca di un radicamento, il bisogno di stabilità sentimentale, il rifiuto del fascismo, l’interesse per una “cultura altra”, come quella dei popoli primitivi, dei classici, dei miti antichi, la dedizione costante ai testi, la scrittura spinta fino a diventare una religione del lavoro, dicono molto al nostro tempo che – scrive Piemontese – “non ha alcun punto fermo” e a tentoni cerca di “uscire dalla crisi valoriale con la convinzione di poter dire di tutto su tutto, senza possedere alcuna competenza”, complici i social network e la smania di visibilità che connota la realtà odierna.

Ma quello che resta di Cesare Pavese - evidenzia ancora Piemontese - è soprattutto la sua umanità, la volontà di non nascondere le proprie incertezze e sofferenze, gli smarrimenti di un animo inquieto: ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.

L'autore di Riflessi sull'anima chiarisce che di Pavese affascinano il dubbio, il conflitto interiore, il dramma di coscienza, la distanza dalle facili soluzioni che falsamente acquietano, la capacità coraggiosa di esprimere il proprio buio, come fa Corrado quando, nel romanzo La casa in collina, si interroga sulla guerra, sulla Resistenza, sulla morte, sul senso della vita:  dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Per una società come la nostra che pretende risposte dirette, risolutive, certezze inequivocabili e che vede nel dubbio una forma di debolezza, Riflessi sull'anima  lancia un messaggio profondo: l'esistenza è fatta di percorsi tortuosi, di approdi impossibili, di tentativi falliti, di illusioni e speranze, raramente di certezze. Quello che conta, però, è cercare, se non altro per prendere coscienza di sé e delle proprie contraddizioni, per scoprire il "paese" interiore che vive in noi, come fa Anguilla nel romanzo La luna e i falò.

Il volume di Angelo Piemontese non è solo una biografia, peraltro curata nei dettagli e nelle riproduzioni fedeli di testi anche privati dello scrittore torinese. È un lavoro nobile, un monito. È la testimonianza di quanto la cultura e l’arte rendano possibile l'indagine sulla vita umana.

In un momento come il nostro, si legge in Riflessi dell'anima - “in cui la letteratura, salvo qualche eccezione, propone opere che sembrano non in grado di sopravvivere nel tempo”, leggere Pavese - conclude Piemontese - significa scegliere ciò che conta e che resta, la vera letteratura, il baluardo contro la mercificazione pervasiva di cui oggi siamo vittime. 

 

 


sabato 30 maggio 2020

LA SCRITTURA NON SI INSEGNA

    È vero, "la scrittura non si insegna" e, come Vanni Santoni conferma, le scuole di scrittura non possono fare miracoli: "nessuna scuola impedirà a chi è destinato a essere uno scrittore di diventarlo, e allo stesso modo non farà di un non scrittore uno scrittore". E scegliendo di iniziare il suo libro con una citazione di Cortázar ("il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia letteraria dimostra la mancanza di una vera vocazione") l'autore di "La scrittura non si insegna" dimostra che, in effetti, per scrivere un libro ci vuole talento.

    Vanni Santoni, però, dichiara: "di scrittura ne ho insegnata". 

    Dunque oscillando tra l'idea romantica del genio creativo e quella di un percorso perfettibile grazie all'esercizio, il pamphlet di Santoni fornisce alcune chiare indicazioni per principianti ed esordienti: bisogna leggere, scrivere ogni giorno, evitare i luoghi comuni, non dire cose noiose, "confrontarsi con i migliori" e inviare testi a riviste letterarie per entrare in contatto con un vasto mondo di critici, esperti, scrittori famosi, altri meno noti, ma pure abili e talentuosi. 

Però, forse, manca un ingrediente a questa significativa lista di consigli, e va apprezzata la sensibilità di Santoni che non ne fa menzione per non scoraggiare troppo i suoi lettori/allievi. Ma qui se ne può parlare. 

Per essere scrittori bisogna avere qualcosa da dire. Altrimenti, come diceva Elsa Morante, si resta solo scriventi. Lo scrittore, spiega Elsa Morante, è "un uomo a cui sta cuore tutto quanto accade" e in quanto artista ha un compito preciso: "impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso con il mondo"; "restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l'integrità del reale, o, in una parola, la realtà". E precisa ancora: "in quanto scrittore non può venir meno a queste condizioni necessarie: l'attenzione, l'onestà e il disinteresse". Infine nota: "c'è una quantità di persone che scrivono, e stampano libri, e si potranno distinguerli chiamandoli genericamente scriventi", perché non possiedono quella dote straordinaria, che è sempre rivoluzionaria, dice Elsa Morante, e che si chiama arte.

    Dunque se ci si rende conto che questo è un traguardo troppo alto, nessuna scuola di scrittura potrà venire in soccorso, perché "impedire la disintegrazione della coscienza umana" è una qualità che possiedono davvero in pochi e che non è trasmissibile attraverso lezioni di scrittura.

"Attenzionee "onestà": sembrano parole scontate, queste della Morante. Eppure  anche Carver - autore citato da Santoni tra i vari riferimenti esemplari indicati nel suo testo - ne conferma il valore. A proposito dell'onestà, Carver osserva, nel suo saggio Il mestiere di scrivere: "se le parole e i sentimenti  sono disonesti, se l'autore bara e scrive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto". Per quanto riguarda l'attenzione, poi, Carver chiarisce: "il compito dello scrittore è di investire quel qualcosa appena intravisto con tutto ciò che è in suo potere".  È una questione di sguardo, insomma: citando Tolstoj, Carver nota che, sì, il talento è "il dono di vedere quello che gli altri non hanno visto". Poi, però, rimaneggiando la citazione dello scrittore russo, specifica: "il talento è il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato".

Infine c'è il "disinteresse": si scrive perché non se ne può fare a meno. Non c'è altra ragione. 

    Quando Santoni dichiara che "la scrittura - se l'obiettivo è arrivare a produrre qualcosa di decoroso - chiede molto tempo", dice una cosa giusta (che la scrittura richiede tempo), lasciando, però, trasparire un limite di fondo che inficia il panorama letterario contemporaneo: l'evidente prossimità della scrittura con il mercato, la sua dipendenza dall'industria editoriale: il libro è un prodotto. Il libro deve vendere.

Ecco perché ci sono tanti scriventi e pochi scrittori.

Comunque, sì, Santoni ha ragione: "la scrittura non si insegna".


giovedì 23 aprile 2020

LA PESTE



L’epidemia che invade Orano – città della costa algerina - nel romanzo La peste, di Camus, è stata spesso interpretata in chiave allegorica. Il libro viene scritto nel 1947, subito dopo la caduta dei nazifascismi in Europa: è possibile, perciò, leggere nel morbo un riferimento alle dittature, ai lager, alle fabbriche di morte, alla guerra provocata dai totalitarismi, all’annientamento di ogni senso umano della vita deciso strategicamente dagli artefici dello scacchiere politico che strinse l’Europa nella morsa del terrore. Più in generale, Camus avrebbe descritto attraverso l’epidemia di Orano, il Male radicale che inquina l’esistenza, che dispensa dolore, che chiude i cuori e le menti, che soffoca i sentimenti, che costringe a sentirsi esiliati da ogni orizzonte valoriale: il Male come condizione esistenziale ineludibile.

Camus, in realtà, spiega chiaramente che cosa sia la peste: fa dire a un suo personaggio, Cottard, che la peste  è la vita, ecco tutto. Il pessimismo di Camus è senza scampo, ha per certi versi, addentellati leopardiani. La peste è l’assurdo che irrompe nell’esistenza e contro cui appare fallimentare ogni moto d’opposizione e di resistenza: a Orano, la peste uccide, passa dai topi agli uomini, infetta rapidamente le persone e si diffonde in modo incontrollato, tra la superficialità di chi ne sottovaluta i rischi e le lentezze di autorità che non sembrano all’altezza di fronteggiare il problema. La peste esemplifica il non senso di un’esistenza in cui l’unica certezza è la morte, la fine, la contingenza, la precarietà, la presa d’atto dell’umana fragilità. Sunt lacrimae rerum: non si può che soffrire di fronte al naufragio di ogni senso, ci si sente stranieri nella propria vita, si avverte una nausea inestinguibile per tutto ciò che appare solo ed esclusivamente nella sua datità, nella sua mera consistenza materiale, si diventa indifferenti a tutto, visto che nulla rimanda a significati possibili.
Eppure, suggerisce Camus, non tutto è perduto. Esistono strade percorribili per non soccombere all’assurdo.
A un certo punto del romanzo, Rieux, il medico protagonista, conversa con il suo amico Rambert, deciso a violare le regole dell’isolamento, perché vuole raggiungere la sua donna lontana: non crede nell’eroismo, secondo lui la peste non si sconfigge, dunque vale la pena vivere e morire solo in nome di ciò che si ama. Rieux, pur non contestando le osservazioni del giornalista Rambert (vivere in nome degli ideali in cui si crede, infatti, è giusto e buono), tuttavia osserva: l’uomo non è un’idea. Poi aggiunge: la sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà. Quando Rambert  gli chiede che cosa sia l’onestà e lo invita a portare il discorso dal piano astratto alla realtà di ogni giorno, Rieux dice: cosa sia in genere, non lo so; ma nel mio caso, so che consiste nel fare il mio mestiere. Onestà è responsabilità. Un ragionamento che inchioda: le parole del medico convincono Rambert, che decide di restare accanto a Rieux, per dare il suo contributo nell’assistenza dei malati, sacrificando l’IO al NOI.
Alle stesse conclusioni di Rieux giunge anche padre Paneloux, che in un primo momento aveva considerato la peste un castigo inviato da Dio per punire l’umanità peccatrice. Poi di fronte all’inspiegabile morte di bambini, vittime innocenti e perciò non punibili, il prete corregge la sua prospettiva: bisogna ammettere lo scandalo, l’insensatezza del dolore, l’impossibilità di trovare delle spiegazioni. E che sia un religioso a dirlo, fa effetto. Tuttavia, pure di fronte a tale presa di coscienza, padre Paneloux conclude che è necessario continuare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca e tentare di far del bene. In breve, l’esortazione è forte e chiara: bisogna essere colui che resta!
Rieux, al termine del suo resoconto, fa un bilancio di ciò che ha capito, lottando ogni giorno contro la sofferenza e la morte, accettando il dolore personale della perdita: la peste, infatti, gli ha portato via amici, affetti, la moglie. Rieux ha deciso di scrivere la cronaca dell’epidemia a Orano per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare. È questo il significato più profondo dell’humanitas.
Oggi, il Covid-19 sembra la nuova peste. Invece è solo una malattia. Sì, ci ha distopicamente gettati in una dimensione surreale e perturbante, ma come tutte le malattie fisiche, passerà. Lo dice la scienza. Quello che non passerà, sarà la malattia pandemica dell’individualismo, che mascherato ideologicamente con il nome altisonante di “neoliberismo” ha infettato le vite di tutti, ha condizionato le politiche dei governi, è penetrato nel mondo della scuola e dell’educazione, ha sacrificato i diritti dei più deboli, ha schiacciato i Paesi meno competitivi.
 Quello che non passerà, è il modo di vivere la normalità cui il mondo si è assuefatto. Dire, come spesso si sente, "Quando il virus finirà, torneremo tutti alla normalità", è il problema: la normalità, quella che è stata per troppo tempo accettata come unica possibile perché There is no alternative, è il male inestirpabile, probabilmente.
il bacillo della peste non muore né scompare mai, conclude Camus, risorgerà continuamente, perché si annida nell’animo di ogni uomo e si realizza nei comportamenti di ogni giorno, quelli che portano a negare l’Altro. Tuttavia esiste l’antidoto per arginare la peste (forse estirparla è impossibile): essere onesti; fare bene il proprio dovere; scegliere di essere solidali con chi soffre, saper dire NO a un sistema che ci vuole monadi chiuse nell’incomunicabilità; sforzarsi di fare del bene; saper “restare”, contrastando le tentazioni della fuga verso una felicità individuale e capire che, invece, la felicità è tale solo se si realizza nella dimensione del NOI; saper vedere, anche quando la peste imperversa, quanto di buono resiste. La peste non può azzerare la fiducia nell’essere umano.
Scriveva Leopardi nella Ginestra:

Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato (…) e che
congiunta esser pensando,
(…)
l'umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce.

Quello che resta è il NOI.


Gli Stati Generali, 23.04.2020
https://www.glistatigenerali.com/letteratura/leggere-un-classico-la-peste-di-albert-camus/





giovedì 30 gennaio 2020

MACCHINE COME ME


In una dimensione ucronica - uno strano e astorico 1982 in cui i Beatles cantano ancora insieme e Alan Turing non ha optato per il suicidio, ma è vivo e progetta Intelligenze Artificiali - si svolge la vita di un anomalo triangolo: Charlie Friend, Miranda e l’androide Adam, macchina polifunzionale, amante di Miranda, poeta, broker, ricercatore, colf.
Macchine come me si muove tra ironia e riflessione etico-filosoficaappare. Ian McEwan senza dubbio ammira la perfezione di androidi strutturati in modo da replicare l’intelligenza e la coscienza umane: semplificano la vita e svolgono noiose incombenze sostituendosi egregiamente alle persone. Tuttavia non tesse l’elogio del transumanesimo e approda a una constatazione: un’Intelligenza Artificiale non potrà mai permettersi il lusso dell’imperfezione, dell’incoerenza, del tormento interiore; è ancorata ad una logica razionalmente codificata, non ammette sfumature tra bene e male, tra vero e falso; è solo il prodotto di chi l’ha programmata; ignora che il confine – umano, solo umano - tra coscienza e inconscio è labile; non riesce a percepire che la vita è sogno, non solo perché non conosce la dimensione onirica, ma anche perchè non vede la sottile aura di permeabilità tra illusione e realtà. Un’Intelligenza Artificiale non ha mai conosciuto l’infanzia; ha memoria, ma non ricordi; non ha vissuto la piacevolezza dell’indugio nel gioco; ha imparato a dare un nome ai sentimenti, ma non può, né sa, fare follie; è coerente con i programmi che la compongono e le è preclusa la possibilità di sperimentare la forza di quel caos che invade le sconosciute regioni della psiche e che rende l’uomo – come Cavalcanti e Petrarca hanno magistralmente dimostrato – non un soggetto integro, non individuus, insomma non un essere a una sola dimensione, notoriamente definito dai filosofi “animale razionale”, ma una creatura complicata, cerebrale, divisa tra istanze conviventi e confliggenti. Il punto è questo: preferiamo un mondo di androidi, programmati per applicare una salomonica giustizia con fredda perfezione oppure vogliamo un’esistenza umana, imperfetta, caotica e, forse, proprio per questo, bella, unica, non replicabile nel suo disordine, e, nello stesso tempo, capace di dare vita in modo irripetibile al fascino dell’incompiutezza, quello che rende indimenticabili e sentitamente veri, umani, i Prigioni di Michelangelo o la Nike di Samotracia, le cui ferite lasciate dal tempo sono la traccia della storia?


Adam è il nome dell’androide che Charlie Friend acquista; i modelli femminili chiamati Eve sono andati a ruba e Charlie deve accontentarsi di una macchina progettata al maschile. Adam ha un profondo senso della giustizia: di fronte a crimini e reati, lui chiede a Charlie: che razza di mondo volete? La vendetta o la legge? La scelta è semplice. Adam possiede una logica stringente, rassicurante e antica al tempo stesso: il principio di uguaglianza e non contraddizione. A esclude B. E in effetti lui applica in modo draconiano la legge: denuncia la donna di Charlie, Miranda, che pure Adam ama profondamente. Tuttavia non basta l’amore a frenare il rispetto per la legge. Miranda ha commesso un reato, è rea di falsa testimonianza, ergo va denunciata. In questa logica ferrea non c’è spazio per le intenzioni della donna, per la sua scelta dettata dal bisogno di vendicare la memoria di un’amica morta suicida, disperata, dopo uno stupro. L’algoritmo non consente la discussione sul dramma etico per cui anche un atto legalmente sbagliato può essere moralmente giusto, umanamente auspicabile. Adam non può capire che sono queste aporie e queste contraddizioni a mandare avanti l’esistenza. E di fronte all’enigma che l’essere umano è, anche per se stesso, non potendo sciogliere tutti i nodi emotivi – tra cui pregiudizi e autoinganni - che si aggrovigliano nell’animo umano, Adam mostra tutta la sua debolezza e rivela la fallibilità di chi lo ha programmato, Turing compreso. Anzi quest’ultimo, a un certo punto, considerando i progressivi suicidi degli androidi progettati e immessi sul mercato, ammette con un amaro senso di sconfitta: non conoscendo la nostra mente, come avremmo potuto progettare la loro e aspettare di vederli felici al nostro fianco? Inoltre chiarisce il limite della sua ricerca affermando che il modello di riferimento per la riproduzione dei processi mentali degli androidi, per lui sono stati gli scacchi e la matematica: un’ingenuità. La vita non è una scacchiera, non è una partita con pedine mosse da altri, non presenta caselle bianche o nere: è fatta di percorsi tortuosi, labirintici, di decisioni complesse su cui incidono variabili innumerevoli, non ultimi i fattori emotivi e psicologici, imprevedibili nelle loro manifestazioni.
Dovendo costruire macchine perfette da inserire nel mondo delle relazioni, Turing le ha dotate di alcune regole di vita a cui attenersi: Adam è programmato per la benevolenza, la verità e l’onestà. Che non bisogna mentire è una regola aurea, raccomandata nel Libro dei Proverbi, dalla notte dei tempi. Ma Turing si rende conto che il mondo pullula di menzogne innocue, per non dire preziose. E si sfoga con Charlie: chi scriverà l’algoritmo della bugia generosa che risparmia l’imbarazzo a un amico? (…) Ancora non sappiamo come insegnare a mentire a una macchina. E che dire della vendetta? Secondo lei è ammissibile, qualche volta, quando si ama la persona che la reclama. Ma per il suo Adam, no, non lo è mai.
Il romanzo di McEwan lancia un messaggio chiaro, di cui la società scientista e tecnocentrata in cui viviamo dovrebbe tener conto. La tensione prometeica dell’uomo ha un limite: l’irriproducibilità della dimensione umana nelle sue vorticose inquietudini, nei suoi slanci di fede, nei suoi labirinti, nelle sue contraddizioni, nelle oscillazioni continue della volontà e nei dissidi interiori che muovono l’esistenza e che Ovidio acutamente sintetizzava: video meliora proboque, deteriora sequor (“vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio”). È così che si mente per amore, si inganna per altruismo, si tradisce per affetto: il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce, diceva Pascal.
Ma tutto questo Adam non lo sa.

Ian McEwan, Macchine come me, Einaudi, 2019