Che cosa può
mai unire Il sogno di un uomo ridicolo (1877)
di Dostoevskij e Perle ai porci (1965)
di Vonnegut?
A un primo
sguardo nulla. Si tratta di due opere nate in
momenti storici diversi, scritte da autori che davvero non hanno niente
in comune. Accostare questi due scritti sembrerebbe una forzatura.
Diverso è lo
stile: accorato e visionario il racconto di Dostoevskij, ironico e paradossale
il breve romanzo di Vonnegut.
Diversi sono
i protagonisti: il personaggio dostoevskijano si autodefinisce un uomo semplicemente
ridicolo e il lettore non conosce nessun
aspetto della sua vita; invece di Eliot Rosewater si sa che è l’erede di un
enorme patrimonio e che tutti, a cominciare dal padre, lo ritengono incapace di
intendere e di volere. Egli, pertanto, viene giudicato inabile ad amministrare l’incommensurabile
ricchezza di cui è titolare.
Certamente
diverse sono le ambientazioni delle due vicende: un novembre cupo e piovoso fa
da sfondo alle strade probabilmente pietroburghesi, forse le stesse del sognatore
delle Notti bianche, e gli spazi
intergalattici lontani dalla Terra e vicini alla stella Sirio, costituiscono lo
scenario in cui l’uomo ridicolo ha la
visione di un Eden che è l’esatta inversione delle dinamiche esistenziali
terrene.
Perle ai porci, invece, si
svolge in una piccola città dell’Indiana, da cui ha avuto origine la fortuna
dei Rosewater.
La città dei Rosewater, che da loro prende il nome, è il centro
dell’azione di Eliot, stravagante presidente della Fondazione Rosewater, un
uomo completamente in antitesi con l’individualismo americano, incarnato dal
padre, il senatore Rosewater, fedele cultore del “Sistema della Libera Impresa”,
quello in cui i veri nuotatori restano
a galla, mentre quelli che vanno a fondo
si sistemano da sé. Amen!
Eppure,
nonostante questa evidente lontananza, i due scritti hanno molto in comune.
Cominciamo
dai protagonisti: sono pazzi.
Nell’incipit
del racconto dostoevskijano l’uomo
ridicolo si presenta: Sono un uomo
ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo.
Su Eliot
Rosewater non ci sono affatto dubbi: la scena finale si svolge in una clinica
psichiatrica.
Perché, a
distanza di circa un secolo, Dostoeevskij e Vonnegut danno voce a personaggi
pazzi? La risposta è semplice: come già Erasmo da Rotterdam chiariva a suo
tempo, la follia è solo il modo di vedere le cose da una diversa prospettiva. I
personaggi delle due opere in esame sono “diversi”: il loro modo di vedere il
mondo e la realtà “diverge” dal senso comune.
L’uomo ridicolo, per quanto creda di
essere completamente anestetizzato ai sentimenti, sebbene sia convinto che
ormai nulla al mondo abbia importanza, al punto che niente sembra poterlo
trattenere dal proposito del suicidio, improvvisamente è richiamato alla vita
dal pianto disperato di una bambina. Lui prima la allontana da sé, poi, tornato
a casa, ripensando a quella bambina prova un inusuale senso di pietà che lo
distoglie dal suo progetto autodistruttivo.
L’uomo ridicolo capisce, allora, che qualcosa nella sua coscienza si
muove e forse resta un sottile filo che lo lega al mondo e probabilmente proprio
in quel mondo c’è ancora un posto per lui. Improvvisamente fa un sogno: si
immagina morto, trasportato da un ignoto compagno di viaggio lontano dalla Terra.
Insieme giungono in un regno felice, incontaminato, fondato sull’amore fino all’arrivo
dell’uomo ridicolo che contagia quell’Eden:
a causa sua si diffondono la menzogna, la prepotenza, le discordie e le contese.
Schiacciato dal senso di colpa egli vorrebbe uccidersi, ma nessuno lo capisce,
tutti lo scambiano per un folle: in fondo quella gente ha ricevuto da lui solo ciò
che desiderava, quella dose di egoismo che è diventato il presupposto, il
motore dell’esistenza.
Al risveglio
l’uomo ridicolo ha una certezza: ha conosciuto la Verità e vuole realizzarla, ha capito che tutto dipende da noi, dai nostri comportamenti. Sceglie
di vivere, si rifiuta di credere che il
male per gli uomini sia la normalità e decide, perciò, di far rinascere l’Eden
che ha sperimentato, vuole restituire senso e vigore a una verità scomoda e
sottovalutata: ama il prossimo tuo come
te stesso. E diventa felice. Questo gli ha insegnato la bambina disperata: in noi c'è la compassione e, quindi, è possibile un’umanità
diversa e la chiave di volta consiste nella capacità di amare e di distinguersi
dai più in virtù della propria apertura all’amore.
Con una
maggiore concretezza e prendendo le distanze dal sogno visionario dell’uomo ridicolo, Vonnegut racconta una
storia simile.
Eliot si
presenta definendosi molto vicino all’Amleto di Shakespeare, anzi si sente peggio di Amleto: è
confuso più di lui. Amleto aveva almeno lo spettro del padre a suggerirgli cosa
fare. Eliot sa di avere una missione importante da compiere, ma non ha un libretto
di istruzioni da consultare! C’è una cosa che, però, lo disgusta con certezza:
il fatto che il governo avrebbe dovuto
dividere equamente le ricchezze del paese, invece di permettere che certa gente
avesse più del necessario, mentre altri non avevano niente. È esattamente
la stessa cosa che denunciava l’uomo ridicolo: nell’Eden contagiato dalla sua
misera umanità, ciò che fa degenerare l’armonia
in caos è la lotta per la divisione, per
il mio e il tuo, la divinizzazione del proprio infinito desiderio.
E come l’uomo ridicolo prende una decisione
coraggiosa – decide di continuare a vivere per farsi testimone della legge dell’amore
e dare in questa maniera il proprio contributo al mondo– così Eliot Rosewater
attua un progetto eroico, dona tutti i sui averi ai bisognosi: voglio amare questi americani di scarto,
anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte. E non dona
solo soldi, Eliot offre qualcosa di ancora più prezioso dei soldi: il suo tempo,
la sua capacità di ascolto, la sua umanità. E quando il cinico avvocato Norman Mushari cerca di farlo interdire per trasferire
il controllo della Fondazione Rosewater ad un altro ramo della famiglia, con la
speranza di trarre profitti dall’affare, prontamente Eliot reagisce con una
trovata geniale e infinitamente generosa, scegliendo, invece, per sé, la via
dell’essenzialità: Aveva una camicia
sola. Aveva un vestito solo. Aveva un solo paio di scarpe.
Eliot è malato di utopia? Ama il prossimo tuo è una vecchia verità che non ha messo radici,
come nota l’uomo ridicolo?
Forse. Certo è, però, che i protagonisti
de due scritti appaiono pazzi, ma sono felici: in una società travolta dagli
odi e dagli egoismi, loro scoprono la gioia, la gioia del donare se stessi, il
proprio amore, i propri averi e questo li avvicina, nonostante gli anni di
distanza.
Sì, niente uguaglia la gioia di donare
a coloro che sono più poveri,
e gaiamente, con liete mani
spargere ovunque i bei doni.
Sì, nessuna rosa è più bella
del volto dei beneficati,
quando ricolme, o gioia immensa,
si abbassano le loro mani.
Sì, nulla rende così sereno
dell’aiuto per tutti gli altri!
Se non rinuncio a quello che possiedo
nessuna gioia potrà darmi.
(Bertolt Brecht, Sulla gioia del dare, “Poesia e canzoni dalle opere teatrali”, in “Poesie”,
Einaudi, 2014